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Commenti e Inchieste

Un nuovo Onu per un mondo nuovo

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 16:00.
L'ultima modifica è del 12 dicembre 2010 alle ore 16:11.

Globalizzazione: che cosa sta cambiando? Riassumendo in poche battute biblioteche di volumi, si può dire che il XVIII e XIX secolo sono stati i secoli dell'Europa, il XX è stato il secolo americano e il XXI sarà il secolo dell'Asia. Affermazioni scontate ora, ma non tanto scontate vent'anni fa quando cadde il Muro di Berlino. Allora uscivano i libri sulla fine della storia e si pensava veramente a un mondo monopolare a guida americana. A mio parere, quel mondo avrebbe potuto durare anche a lungo se non fossero stati compiuti alcuni grandi errori politici: penso alla guerra in Iraq e agli errori della politica medio-orientale. Comunque il passaggio d'epoca era già scritto nei dati economici: il prodotto nazionale lordo degli Stati Uniti nel 1950 era esattamente la metà del prodotto nazionale lordo del mondo. Oggi è tra il 21 e 22 per cento.


Sono passati 60 anni, un periodo non breve, ma nell'ultima fase il cambiamento si è accentuato e ha raggiunto una velocità impressionante. Se poi si guarda a Usa, Europa e Canada insieme, nel 50 costruivano il 68% del prodotto nazionale lordo del mondo, mentre oggi sono tra il 40 e il 45 per cento. Conclusione: il mondo occidentale non rappresenta più la maggioranza della realtà economica mondiale. E, ripeto, la velocità di cambiamento è tale che la proiezione per il domani è una proiezione che accentuerà ancora più profondamente questo cambiamento.


Post Muro
Caduto il Muro di Berlino, si parlava del mondo monopolare e la guerra in Iraq era stata interpretata come il sigillo per consacrare il nuovo ordine mondiale: poche settimane e si sarebbe sistemata l'ultima area inquieta del pianeta, fermando davvero la storia. Com'è andata a finire è cosa nota: le conseguenze sono state del tutto opposte.

Anche in Europa le conseguenze di questa guerra sono state importantissime. La divisione all'interno dell'Europa, che ho vissuto come presidente della Commissione europea, è stata drammatica. Raramente ho assistito a scontri politici così aspri come quelli della divisione sulla guerra in Iraq: vecchia e nuova Europa, Gran Bretagna e Italia da un lato, Germania e Francia dall'altro. Credo che alla radice degli attuali problemi europei non ci siano solo problemi economici, ma anche le conseguenze di quei momenti di mancanza di visione comune riguardo alla guerra e alla pace.

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Tuttavia, mentre gli Stati Uniti venivano fermati dalla guerra in Iraq, il mondo cambiava. Primo: si affacciava la nuova assertività russa. Mentre l'America era bloccata in Iraq, la Russia si è mossa sul suo scacchiere e ne ha ripreso il controllo: ricordo solo i casi della Georgia e dell'Ucraina. Ma l'evento più importante è stato l'accelerarsi del movimento asiatico: fenomeno in atto da anni, fin da quando nel '78-'79 è cambiata la strategia di lungo periodo della Cina. Tuttavia è dagli anni 90 che la crescita cinese diventa il fatto nuovo dell'economia mondiale. La Cina ha un miliardo e 300 milioni di abitanti, 22 volte l'Italia. Nel 2050 avrà un miliardo e 430 milioni di abitanti e l'India ne avrà un miliardo e 750 milioni: oggi parlo soprattutto della Cina. ma non dobbiamo mai dimenticare la potenzialità dell'India.

La Cina può essere fermata solo dai suoi errori e gli errori sono sempre possibili in presenza di cambiamenti così grandi. Per questo motivo i dirigenti cinesi, un po' per vezzo e un po' per intelligenza politica, si definiscono appartenenti a un paese in via di sviluppo. La scala dei problemi cinesi è per noi inimmaginabile..

Ero a Pechino durante la conferenza del Partito del Popolo, e il messaggio del Primo ministro Wen Jiabao si è concentrato sulla lotta alla corruzione e alla disuguaglianza, prospettando un grande aumento del potere d'acquisto all'interno del paese. La Cina ha già assunto un nuovo ruolo nel mondo e lo ha reso concreto, a livello politico, col passaggio dal G8 al G20 e, a livello popolare, col grande successo olimpico, mentre l'identità nazionale è stata grandemente rafforzata dai 70 milioni di visitatori (prevalentemente cinesi) dell'Expo di Shanghai.

Ma l'evento più importante, che cambia la faccia del mondo, è la politica estera: ormai la Cina agisce dappertutto, eccetto i posti dove vi sono forti tensioni. Non c'è in Medio Oriente, e in Iraq o in Afghanistan si è ben guardata dal giocare un ruolo attivo. Esempio della politica estera cinese è il caso dell'Africa. Non esiste alcuna potenza che svolga una politica a livello continentale come la Cina. Nella storia dell'umanità non ho mai visto un paese esportare contemporaneamente merci, manodopera, capitali e tecnologie. Non è mai successo in tutta la storia.

Certo questo modello di crescita non potrà durare all'infinito, se non altro per motivi demografici. La politica del figlio unico sta già trasformando la piramide d'età del paese: la popolazione in età lavorativa è ormai già arrivata al massimo del suo sviluppo numerico. Sarà invece l'India a continuare nel suo boom demografico, con uno strano dualismo: poca crescita al Sud, dove vi è il massimo sviluppo economico e molto di più nel Centro-Nord.
La sfida demografica

Nel mondo oggi siamo 6,9 miliardi. A metà del secolo non arriveremo ai 12 miliardi previsti nel secolo scorso. Arriveremo "solo" a 9 miliardi ma non potremo ugualmente evitare di affrontare i grandi problemi dell'energia, dell'acqua e dell'ambiente.

L'aumento dei consumi pro-capite sarà infatti talmente forte che bilancerà quello che doveva essere l'aumento dovuto alla crescita della popolazione. Ma i protagonisti del mondo futuro non saranno solo la Cina e l'India perché nuove potenze si sono già affacciate sulla scena mondiale. Prendiamo ad esempio la Turchia e il Brasile. Sono entrambi paesi fondamentali per le politiche degli Usa: il Brasile come paese pacificatore-equilibratore di tutta l'America Latina, per impedire i populismi di derivazione anarchica, peronista o di estrema sinistra; la Turchia come baluardo verso l'Est: prima verso l'Unione Sovietica e poi verso l'estremismo islamico.

Non è un caso che Brasile e Turchia abbiano elaborato una politica comune nei confronti dell'Iran, partendo dall'uso pacifico dell'energia nucleare. L'offerta, certo, non è piaciuta agli Stati Uniti, ma questo non significa che Brasile e Turchia abbiano cambiato fronte. Questo va detto con forza: i due paesi sono ancora profondamente legati agli Usa e all'Europa, ma in un mondo che è diventato multilaterale e quindi permette giochi prima impossibili. Ciò non implica che gli Stati Uniti non siano di gran lunga la potenza militare più forte del mondo. Essi hanno ancora un'indiscussa leadership militare e la differenza rispetto al passato è che non la possono più esercitare da soli e, soprattutto, che stanno perdendo molto del loro "soft power".

Del resto c'è un altro punto su cui riflettere a proposito degli Usa: in questo momento hanno il 21-22% del prodotto lordo mondiale ma portano il peso del 50% delle spese militari. Hanno 400mila soldati in terra straniera e oltre 1.000 basi militari sparse per il mondo. Questo si chiama "over-stretching": gli Stati Uniti potranno sopportare ancora a lungo questo squilibrio, perché sono comunque una potenza forte, ma intanto questo sforzo militare è una delle cause principali del 10% di deficit del bilancio americano. Questo deficit non è sostenibile all'infinito, anche perché, nello stesso tempo, la Cina attua una politica di presenza altrettanto efficace a livello mondiale senza spendere un dollaro.

In questo quadro globale l'Europa è la vera contraddizione. Siamo 496 milioni, il numero uno al mondo quanto a Pil (più degli Usa, più della Cina), primi per la produzione industriale, primi per le esportazioni, abbiamo bilanci pubblici aggregati sostenibili perché il deficit medio della zona euro è del 6,5%, e quindi molto più basso rispetto agli Stati Uniti. Ebbene, un'Europa così straordinaria, un continente che ha raggiunto risultati che sembravano impossibili, come l'allargamento a Est e la moneta unica, oggi non conta nulla. Nel G20 partecipiamo in sette e siamo continuamente divisi. Quando vado in Medio Oriente sento continuamente dire che l'Europa sarebbe il partner ideale, perché siamo più degli altri vicini e meglio ne conosciamo i problemi. Eppure non contiamo nulla!! Forse aveva ragione uno dei miei studenti in Cina quando, riflettendo sul passato ma guardando al presente, con una schiettezza disarmante mi ha chiesto: «Ma l'Europa è un laboratorio o un museo?».

È evidente che stiamo perdendo le occasioni della storia. Mi ricordo quando nacque l'euro: durante i colloqui con i dirigenti cinesi, nell'ambito del vertice annuale, i cinesi smaltivano montagne di dossier in pochi minuti per parlare dell'unica cosa che davvero interessava: l'euro. «È vero che farete la moneta comune? – chiedeva il presidente cinese - È vero che spariranno il marco e il franco? È vero che farete un biglietto unico come il dollaro?» E infine: «Potremo prendere lèeuro come riserva?». Ovviamente caldeggiai molto quest'ipotesi.

Poi venne l'euro. All'inizio come è ben noto si svalutò nei confronti del dollaro. Al vertice successivo il presidente cinese mi disse: «Lei non mi ha dato un buon consiglio ma io continuerò a comprare euro per due motivi: primo, perché aumenterà di valore; secondo, perché voglio vivere in un mondo in cui non ci sia uno solo che comanda, e se voi andate avanti con l'euro e con l'Europa per me si aprirà un migliore futuro politico». Poi aggiunse: «Comprerò quindi tanti euro quanti dollari».
Ciò non è accaduto perché l'Europa non ha saputo concepire la moneta come primo passo verso l'unità. I cambiamenti del mondo si sono così accelerati che i cinesi ora rifiutano ogni assetto del sistema monetario mondiale che non tenga conto del nuovo ruolo che la Cina ha assunto. Il tutto in meno di un decennio. La Cina ha a questo proposito argomenti molto persuasivi a cominciare dai duemila miliardi di riserve. Del resto si è visto anche, ad esempio, al vertice sul clima di Copenaghen: se la Cina non è d'accordo la paralisi è assicurata.

Gestire la ripresa
Se lo sguardo resta concentrato sempre e solo sul breve-brevissimo termine non si prendono decisioni strategiche. La crisi ha colpito diversamente i paesi europei e nel complesso ha colpito più duro in Europa che non negli Usa o in Cina. Perché? Perché il pacchetto Obama e quello cinese, buoni o cattivi che fossero, hanno avuto impulso diretto e immediato sull'economia, mentre in Europa ognuno ha preso le sue decisioni (o le sue non decisioni) e ciò ha di fatto vanificato gli effetti di sistema. Così nel 2009 l'economia americana è calata del 2,6%, quella dell'area euro del 4%, quella della Germania del 4,9, quella dell'Italia del 5,1. Anche riguardo alla ripresa i dati sono molto preoccupanti. Negli Usa la ripresa sarà intorno al 2,5% quest'anno, l'area euro all'1,6, ma all'interno dell'area euro la Germania raggiungerà il 3,7, la Francia l'1,6, l'Italia l'1 per cento. Le previsioni per il 2011 sono ancora peggio: l'Italia resta allo 0,8% mentre gli altri superano almeno l'1 per cento.

L'Fmi ha fatto una classifica sulla crescita di 170 paesi nel primo decennio del secolo. L'Italia è il 169° e il centosettantesimo è Haiti. Lasciamo all'Fmi la responsabilità dell'esattezza di questa classifica, che però non può sbagliare di molto. In ogni modo, con questo quadro, è impossibile porre rimedio alla disoccupazione giovanile e al lavoro precario.

Problemi comuni a tutti i paesi sviluppati, ma che in Italia stanno raggiungendo livelli intollerabili. In questo complesso passaggio dell'economia mondiale, non abbiamo ancora gli strumenti per affrontare i problemi di lungo periodo. Per un giorno ne facciamo un dramma e il giorno dopo pensiamo che tali problemi non esistano, come è il caso del cambiamento climatico. Oppure non ci pensiamo proprio come è il caso della diminuzione delle disuguaglianze nel mondo o all'interno dei singoli paesi.

Inoltre preferiamo lasciare sullo sfondo i problemi delle risorse naturali e alimentari del mondo. Eppure il cambiamento della dieta di miliardi di uomini causerà diffuse scarsità in un periodo non lontano.

Cooperazione difficile
Il G20 dovrebbe essere la sede per affrontare questa grande mole di problemi. Quando la crisi è esplosa si è sperato che questo potesse essere vero. Per un attimo la paura aveva creato un clima di solidarietà, ma poi le posizioni si sono sempre più differenziate e oggi i contrasti appaiono insanabili, come ha dimostrato il recente vertice di Seul.

Sul problema del surplus la Germania si è schierata con la Cina, sul problema della moneta Usa e Cina si sono schierati su fronti opposti. Da Seul è uscita l'idea che il governo di questo mondo è sempre più difficile e che, in definitiva, un sistema di comando non c'è. Il G20 non ha né la forza politica né la struttura preparatoria tecnica per affrontare questi problemi. I comportamenti non cooperativi non hanno un arbitro.

Sul problema monetario, ad esempio, cosa accade? La Cina accusa gli Usa di stampare moneta per deprimere il dollaro, attraverso il cosiddetto "Quantitative Easing". Gli Usa accusano la Cina di tenere il cambio depresso per avvantaggiarsi sui mercati mondiali. La replica della Cina è questa: «Come arrivare al riequilibrio, se innalzando il valore dello yuan o spendendo di più per spesa sociale e importazioni, lo decidiamo noi». E di fronte a queste posizioni oggi non c'è accordo o arbitragggio possibile. Credo proprio che ora più che mai servirebbero organizzazioni sovranazionali autorevoli e rispettate. Può darsi che sia un'utopia, ma poiché ogni grande progresso politico ha in sé una dose di utopia, credo proprio che oggi sarebbe il vero grande momento per rilanciare l'Onu.

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