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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2010 alle ore 08:03.
L'esperienza dei tanti paesi emergenti che stanno crescendo moltissimo ci aiuta a ricordare qualcosa che abbiamo sperimentato anche noi in passato, cioè come si diventa un paese industriale. In altre parole, come devono cambiare tante cose - dal sistema politico al mercato del lavoro, dal sistema finanziario alla organizzazione delle aziende - affinché la modernità rappresentata dall'industria diventi la nuova regola. Questa esperienza è sempre molto interessante, ma il nostro problema oggi è diverso ed è del tipo "come si resta un paese industriale". Mentre nel caso degli Stati Uniti, il problema è ancora un altro ed è: "come si torna a essere un paese industriale".
Proviamo a ragionare su questi due problemi, incominciando dal più difficile che è oggi quello degli Stati Uniti, dove la disoccupazione non si riduce se non molto lentamente e la crescita resta - anche per questo motivo - molto debole. La passata bolla immobiliare ha tante conseguenze negative; ma anni fa ne ha avuta una ancor più negativa che non è stata allora valutata bene. La crescita del settore edilizio e dei suoi occupati ha infatti impedito di percepire la dimensione vera della deindustrializzazione allora in atto. Non è affatto facile occupare oggi - nei servizi - lavoratori già dell'industria che erano poi passati all'edilizia e che adesso rischiano di diventare disoccupati permanenti. Certo, non basterà un approccio solo macroeconomico: liquidità abbondante, bassi tassi d'interesse e sostegno alla domanda effettiva via deficit pubblico e dollaro debole. Anche la mitica flessibilità del mercato del lavoro americano non basterà a far sì che riaprano presto le industrie che anni fa avevano chiuso andando a produrre nei paesi emergenti.
Ancora diverso è il problema dell'Italia: come restare un paese industriale. Assumo che sia nell'interesse del paese che nei prossimi anni ciò avvenga, e quindi si eviti di fare anche noi la fine degli Usa. In questo caso, il modello è ovviamente la Germania, ed è ormai da un anno che l'abbiamo capito. L'esempio tedesco è importante perché rivaluta in termini moderni (in modo accettabile da Bruxelles, perché scevro da confusione con il divieto agli aiuti di stato) quella che una volta avremmo chiamato "politica industriale". Che nel caso tedesco ha significato soprattutto stimolare la ristrutturazione dell'industria facendola progredire sul piano dell'innovazione tecnologica. Suggerisco di guardare a come sono stati valorizzati gli 80 istituti Max Planck che fanno ricerca per l'industria; quante risorse sono state messe nell'eccellenza delle strutture di ricerca universitarie, utile all'industria; e come si sia iniziato ad attrarre con adeguate borse di studio i migliori ricercatori di tutto il mondo.