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Commenti e Inchieste

L'import dà scacco alla competitività

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2010 alle ore 06:38.

È nelle importazioni il lato oscuro della competitività italiana? Nei mesi passati, nel commentare le liete notizie sull'export abbiamo trascurato di misurare la competitività italiana sul territorio, oltre che sui mercati esteri? Forse sì e, se le statistiche Istat di ottobre e novembre si confermeranno, le conseguenze non sarebbero da sottovalutare. Le importazioni crescono più dell'export. L'ultima stima disponibile, quella di novembre relativa al solo commercio extra-Ue, indica come da inizio anno e rispetto al 2009, le esportazioni sono aumentate del 16,5%, mentre le importazioni del 28%, quasi il doppio. L'import energetico non spiega tutto, pur se la risalita dei prezzi e la ripresa della domanda di energia contano: al netto degli scambi energetici, le importazioni corrono a velocità doppia, anche quelle di beni intermedi e strumentali (+55% e +18% dai paesi extra-Ue da inizio 2010).
La dinamica del manifatturiero ha amplificato gli impulsi della crisi e l'export è stato il canale di trasmissione della recessione in Italia. L'export è stato potente solo perché la domanda interna è così flebile da non dare scosse all'economia da un decennio. Lo è stato nel 2005-07, quando il mondo correva un po' drogato, e le nostre imprese vendevano e a caro prezzo negli Usa e nei mercati emergenti; lo è stato - ma in negativo - nel tonfo del 2008-09.
Sarebbe un errore ritenere che la "competitività" riguardi solo le quote dell'export o la crescita delle vendite all'estero. Gli sviluppi sul mercato italiano sono significativi, e ciò segna una differenza tra le imprese manifatturiere e molte aziende del terziario. Queste ultime sono protette dalla concorrenza estera, dalle banche alla sanità, alla pubblica amministrazione, mentre per l'industria innovare e internazionalizzarsi non è solo un'opzione per presidiare i mercati, ma una necessità per conquistare e mantenere i clienti italiani.
Nei primi dieci mesi del 2010, le importazioni di pc e apparecchi elettronici sono aumentate del 32%, il doppio dell'aumento delle esportazioni, con un saldo commerciale in rosso per 15 miliardi. È un settore in cui l'Italia non è più specializzata, mentre lo è nei macchinari industriali. La nota negativa è che il primo comparto è tra quelli a maggior crescita della domanda mondiale di beni: dall'11% del 1980, rappresenta oggi circa il 35% delle esportazioni globali. La contrazione degli investimenti ha penalizzato la crescita dei macchinari, il surplus nel settore da gennaio a ottobre si compensa con i deficit di elettronica, auto e chimica. Al netto delle importazioni di petrolio e gas, il surplus commerciale nei primi dieci mesi del 2010 è sotto di 8 miliardi rispetto al 2009, mentre il deficit energetico è molto aumentato. Colpisce che la dinamica dell'import riguardi il consumo di beni durevoli e di quelli intermedi da trasformare: sempre più telefonini e pc stranieri, sempre meno componentistica italiana nelle nostre fabbriche? Anche in Germania l'export ha trainato le importazioni, ma il surplus commerciale si è ampliato anziché contrarsi pur in presenza di una ripresa più robusta della nostra.

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Tags Correlati: Bilancia commerciale | Istat | Italia | Pubblica Amministrazione

 

C'è anche un riflesso macroeconomico da monitorare. La bilancia commerciale e la posizione debitoria netta sull'estero sono tra gli elementi che ci hanno reso meno a rischio di Grecia, Irlanda e Spagna. Che cosa accadrebbe se il nostro saldo commerciale confermasse in futuro il deterioramento di ottobre? E se la nostra posizione debitoria netta sull'estero, peggiorata dal 15 al 25% del Pil negli anni della ripresina 2005-07, poi migliorata durante la crisi, tornasse ancora ad ampliarsi in coincidenza di una nuova, flebile crescita della domanda interna? Qualcosa non torna nei nostri criteri di competitività se possiamo permetterci solo gli impulsi della domanda estera, e neanche un contributo da consumi intermedi e finali nazionali. Un tempo si chiamava "vincolo estero" alla crescita, negli anni della globalizzazione e delle crisi del debito sovrano potrebbe costarci caro.
smanzocchi@luiss.it
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