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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 08:19.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2010 alle ore 08:20.
Nel 2010 la crescita dell'economia mondiale è stata di quasi il 5%, un tasso elevato, simile a quello del periodo pre-crisi. I paesi emergenti sono cresciuti a tassi da record, e non si tratta solo di Cina, ma anche di India e altri paesi asiatici, Brasile e il resto del Sud America, e perfino molti paesi africani. La povertà nel mondo continua a scendere e, dato che i paesi ricchi crescono meno di quelli poveri, anche la disuguaglianza nel mondo si è ridotta.
È presto per sapere se all'interno dei paesi ricchi la crisi abbia fatto aumentare o scendere la disuguaglianza (la crisi del '29 la fece diminuire) ma sicuramente a livello mondiale la povertà è scesa. Nei paesi in via di sviluppo il 2010 sarà ricordato come un anno straordinariamente positivo.
Questo successo si deve in gran parte al fatto che non si è caduti nell'errore del protezionismo, che seguì la crisi del '29. I paesi emergenti non si sono chiusi e hanno continuato ad abbracciare politiche di libero mercato. Il populismo stile America Latina degli anni 80 è solo un ricordo. Le liberalizzazioni in India continuano, alcuni paesi africani stanno uscendo con fatica dal circolo vizioso di corruzione estrema e sottosviluppo. Il tanto criticato capitalismo continua a macinare crescita per la stragrande maggioranza dell'umanità.
È difficile rendersi conto di tutto ciò in un'Italia semi-ferma, in un'Europa attanagliata da crisi fiscali, o negli Stati Uniti con una ripresa debole e molto ineguale fra stato e stato e una disoccupazione strutturale difficile da combattere. Ma allora cosa chiedere al 2011? Gli squilibri commerciali mondiali continuano a creare tensioni. I risparmi cinesi devono scendere e quelli americani salire. Mentre le famiglie americane hanno ripreso a risparmiare, il disavanzo pubblico americano è fuori controllo. La politica fiscale americana è insostenibile e deve passare dallo stato di "stimolo" a quello di "rientro".
L'Europa deve darsi un sistema di regole che eviti questa perenne tensione per cui ogni settimana un paese rischia di crollare, vittima di finanze pubbliche disastrate. Regole a livello europeo servono a poco se i paesi stessi non adottano autonomamente politiche fiscali prudenti. Può piacere o no, ma nessun paese è disposto a delegare a Bruxelles la sua politica fiscale. Ma soprattutto l'Europa dovrà imparare a convivere con una parte mediterranea meno produttiva della Germania e del resto dell'Europa del Nord. Una convivenza difficile. È compito dei paesi meno produttivi fare i cambiamenti necessari per adeguarsi.