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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2011 alle ore 09:47.
L'ultima modifica è del 11 gennaio 2011 alle ore 06:38.
Nell'epoca dell'informazione istantanea, gridata e senza riscontri – alimentata a getto continuo sui blog, con i cinguettii di Twitter e dai messaggi su Facebook – gli errori, le imprecisioni, le inesattezze sono inevitabili, quasi necessari e in qualche modo giustificati dalla corsa ad arrivare prima degli altri, dalla smania di raccogliere tutti i particolari possibili, dalla necessità di nutrire la bestia famelica di notizie. La deputata democratica Gabrielle Giffords, obiettivo della strage di Tucson, è stata subito data per morta, per esempio.
Sono seguite dichiarazioni di cordoglio ad ampio raggio e anche Barack Obama, leggendo su un foglio evidentemente preparato prima della smentita del decesso, si è rivolto alla deputata al passato («Gabbie era mia amica»).
In questo contesto informativo in real time dare le notizie a ritmi rock non è semplice, la percentuale di prendere cantonate è alta, ma è la stampa 2.0, bellezza, e non possiamo farci niente. Altra cosa però è analizzare, commentare, giudicare i fatti. Come ha scritto Joel Meares sulla rivista della Scuola di giornalismo della Columbia University, merita minore compassione chi invece è corso a interpretare la strage di Tucson con i propri pregiudizi, lenti politiche partigiane e la stessa violenza retorica che si imputa agli avversari.
Tre giorni dopo, al momento della stampa di questo articolo, non sappiamo ancora che cosa abbia scatenato la furia omicida di Jared Loughner. Sarebbe stato il caso di riaprire il dibattito sul facile accesso alle armi in America, in particolare delle armi da guerra come quella usata dallo stragista di Tucson (vietate ai tempi di Bill Clinton), tenendo conto che in certe zone degli Stati Uniti, come nell'Arizona di Gabrielle Giffords (favorevole alle armi private), gli spazi geografici, la vita di frontiera e la lontananza da sceriffi e polizia rende talvolta il possesso delle armi più comprensibile rispetto a quanto possa apparire a New York o in una città europea. Sarebbe stato interessante riflettere ancora una volta sugli istinti apocalittici che da sempre percorrono la società e la cultura americana. Invece, no. Senza nemmeno conoscere l'identità dell'assassino, e cinque minuti dopo la strage, ci siamo trovati nel bel mezzo della giostra delle accuse, con molti su Internet a imputare la strage a un preciso personaggio dell'Alaska, a un movimento specifico, a un agguerrito clima politico. Magari si scoprirà che l'assassino è legato a Palin, ma al momento non lo sappiamo. Anzi, a mano a mano che arrivano le notizie appare sempre meno credibile un movente politicamente riconducibile al dibattito americano o dell'Arizona. Sarebbe bastato, peraltro, documentarsi sulla deputata colpita, una democratica conservatrice che su molti temi, dalle armi all'immigrazione, dalla difesa nazionale alla politica fiscale, dal controllo della spesa pubblica al patriottismo costituzionale, è più vicina alle ossessioni dei Tea Party che all'ortodossia progressista.