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«Scudo» bocciato in parte
Al giudice il pieno potere di controllo - De Siervo: «Molto contento»

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2011 alle ore 08:57.
L'ultima modifica è del 14 gennaio 2011 alle ore 07:43.

ROMA - Al "politicamente corretto" la Corte costituzionale ha preferito il "giuridicamente corretto". E così, nonostante le pressioni dirette e indirette, ha bocciato lo scudo processuale confezionato su misura per il premier Silvio Berlusconi, svuotando di fatto la legge sul legittimo impedimento. Cadono alcuni punti cardine, come l'automatismo della sospensione del processo nonché l'impedimento continuativo e futuro certificato dalla Presidenza del Consiglio. Viene restituito al giudice il potere/dovere di valutare in concreto il legittimo impedimento e la sua indifferibilità. Torna la necessità di bilanciare gli interessi in gioco, ovvero il diritto di difesa e l'interesse all'esercizio delle funzioni di governo con le esigenze della giustizia. Formalmente, la legge n. 51 del 2010 sopravvive ma, fanno notare a palazzo della Consulta, ne resta poco più che l'involucro. Il suo contenuto, dice la Corte, contrasta con i principi dello stato di diritto perché introduce un'immunità in capo al presidente del Consiglio, arbitro incontrastato degli stop del processo, anche per lunghi periodi; discrimina in modo irragionevole premier e ministri rispetto ai comuni cittadini; spoglia il giudice del potere di controllo sul legittimo impedimento; sacrifica le esigenze processuali a quelle dell'attività di governo.


«Sono molto contento» commenta il presidente Ugo De Siervo al Sole 24 Ore qualche ora dopo dopo la comunicazione alla stampa del vedetto. «Anche perché - aggiunge - sulla decisione si è formata una larga maggioranza». I boatos di palazzo della Consulta dicono che il verdetto finale è stato votato da 12 dei 15 giudici. Al no di Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano (passati alle cronache per la famosa cena con Berlusconi, a casa del primo) si è aggiunto quello di Alfio Finocchiaro. Nelle votazioni sui singoli punti, la maggioranza non è mai scesa sotto gli 11 voti.

La camera di consiglio è cominciata alle 9.30 di ieri ed è andata avanti per l'intera mattina. Dopo una breve sospensione, è ripresa alle 15.30 ma alle 17.00 il comunicato stampa con il verdetto era già nelle redazioni dei giornali. Tre i punti toccati dalla Corte: l'impedimento continuativo (fino a sei mesi) attestato dalla presidenza del Consiglio - che faceva scattare il rinvio del processo - cade di netto per violazione degli articoli 3 (uguaglianza) e 138 (necessità di una legge costituzionale) della Costituzione. Per la stessa ragione è illegittima la norma che imponeva di rinviare l'udienza di fronte agli impegni addotti dal premier e dai ministri: la Corte l'ha corretta ripristinando il potere del giudice di controllare «in concreto» il legittimo impedimento fatto valere (tecnicamente, si tratta di un intervento «additivo»). Infine, sopravvive la norma secondo cui è legittimo impedimento «il concomitante esercizio» di una serie di attività del premier indicate dalla legge, nonché di quelle «preparatorie, consequenziali e coessenziali alle funzioni di governo», ma a patto che - scrive la Corte - si continuino ad applicare i criteri previsti dall'articolo 420 ter del Codice di procedura penale, che disciplina il legittimo impedimento. Qui - ma solo qui - si è scelta la strada dell'«interpretativa di rigetto», con cui si torna, in buona sostanza, alle regole vigenti. Il giudice deve poter valutare sempre l'impedimento addotto, non solo la sussistenza (come sostenevano gli avvocati) ma anche la concretezza. Quindi, il merito. L'impegno, anche quello astrattamente previsto dalla legge, deve essere appunto concreto, credibile, insuperabile, ineluttabile. Solo così si trasforma in legittimo impedimento. Un comitato interministeriale, ad esempio, pur rientrando astrattamente tra le attività "tipiche", potrebbe non giustificare il rinvio del processo se il giudice ritenesse che è un impegno routinario e rinviabile.

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Tags Correlati: Alfio Finocchiaro | Consiglio dei Ministri | Corte Costituzionale | Governo | Luigi Mazzella | Niccolò Ghedini | Paolo Maria Napolitano | Piero Longo | Silvio Berlusconi | Ugo De Siervo

 

Gli avvocati del premier Niccolò Ghedini e Piero Longo fanno buon viso a cattiva sorte: «La legge nel suo impianto generale è stata riconosciuta valida ed efficace e ciò è motivo evidente di soddisfazione», hanno scritto in una nota, rimproverando peraltro la Corte di essere incorsa in un «equivoco» sulla portata della legge, nata per tutelare meglio il diritto di difesa e il sereno svolgimento dell'attività di governo poiché, secondo i due legali, i giudici di Milano sono venuti meno ai doveri di «leale collaborazione» quando hanno «disconosciuto» che un Consiglio dei ministri costituisse legittimo impedimento.

È possibile che nella motivazione della sentenza (affidata a Sabino Cassese) la Corte riconosca la legittimità, in astratto, di un trattamento speciale dell'attività di governo del premier e dei ministri, purché rispettoso dei principi dello stato di diritto. Ma poiché la legge 51 è andata ben oltre, la Corte, pur non avendola cancellata in toto, ne ha cambiato radicalmente la sostanza.

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