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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2011 alle ore 08:06.
Protagonisti per una settimana della scena mediatica, i lavoratori di Mirafiori hanno reagito alla mobilitazione dell'opinione pubblica nei loro confronti con una partecipazione altissima al referendum sull'accordo del 23 dicembre.
Da oggi in poi, quando i risultati definitivi potranno essere vagliati nella loro completezza, si potrà commentare e stabilire se l'attenzione dei media abbia giocato in un senso o nell'altro. Certo, l'insistenza con cui si è seguito il clima interno alla fabbrica, attraverso un presidio ininterrotto di televisioni e giornali ai cancelli, deve aver influito sulla decisione di recarsi ai 10 seggi in cui è stato distribuito il voto di Mirafiori. L'appuntamento ha finito così col diventare uno di quelli che non si devono mancare, perché i mezzi di comunicazione l'hanno chiamato "storico" in largo anticipo sul suo esito (e le cui conseguenze non potranno essere immediatamente calcolate).
Ha fatto bene o no a Mirafiori e alle prospettive del lavoro industriale in Italia la tempesta mediatica di questi giorni? Se stiamo alla comprensione dell'accordo e dei suoi contenuti effettivi, la risposta non può che essere negativa. La furia con cui per quasi una settimana ci si è gettati su un testo sindacale che, diciamo la verità, è una lettura ostica per i non addetti ai lavori, non ha favorito per nulla un giudizio equilibrato. Chi ha davvero provato a misurarsi con i 14 punti e le 36 cartelle di cui consta il prodotto finale di un negoziato tormentato, interrotto e poi ripreso, fino alla convalida affidata al voto di ieri e dell'altro ieri? Pochi, pochissimi hanno tentato di farlo; i più, tra quanti vi si sono accostati senza appartenere al mondo sindacale, gli avranno al massimo dato uno scorsa, senza soffermarsi sulle sue clausole e tanto meno sui suoi impegnativi allegati, riguardanti la nuova organizzazione del lavoro, i sistemi dei turni e delle pause. Se l'avessero letto con la cura necessaria, forse avrebbero capito che il suo significato non può essere racchiuso in una formula apodittica e perentoria.
Soprattutto, il confronto di questa settimana non ha sollecitato quasi nessuno a interrogarsi sulla fabbrica e il suo mutamento. Si è preferito sovente rifugiarsi negli stereotipi; alludere a luoghi di lavoro che paiono incapaci di trasformazione e si riproducono nel tempo uguali a se stessi. Come se la fabbrica non fosse una sede naturale dell'innovazione e i comportamenti che essa ospita non fossero soggetti, al pari di ogni rapporto sociale, a un'evoluzione. È stata persa così un'occasione, quella che avrebbe consentito di uscire dalle rappresentazioni stereotipe del lavoro per riportare l'accento sull'organizzazione industriale e il suo cambiamento.