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C'era una volta un sogno chiamato superfusione

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2011 alle ore 07:54.
L'ultima modifica è del 19 gennaio 2011 alle ore 09:04.

La Cina è un concorrente, un avversario o un nemico degli Stati Uniti? La visita del presidente cinese Hu Jintao a Washington riapre il dibattito sul declino del ruolo americano e sulla crescita dirompente del gigante cinese. Ma tra gli analisti c'è anche chi, come lo studioso Zachary Karabell, sostiene che America e Cina siano invece un'unica ipereconomia integrata e interdipendente, un'entità singola da cui dipende il benessere del mondo. Né concorrenti, né avversari, né nemici. La superfusione tra i due paesi, scrive Karabell in Superfusion (Simon & Schuster), è permanente, irreversibile e positiva. Un'Unione Europea involontaria, creata nonostante le scelte dei due governi e i desideri dei due popoli.

Al contrario di quanto ha scritto Niall Ferguson, l'autore della definizione "Chimerica" che due anni fa è stata ripresa su queste colonne da Carlo De Benedetti, la superfusione America-Cina ha mitigato gli effetti della crisi finanziaria. Lo stimolo all'economia americana del 2009 non non ci sarebbe stato senza la disponibilità cinese a finanziarlo. Allo stesso tempo la Cina non avrebbe il surplus che può vantare se non vendesse i suoi prodotti ai consumatori americani e non avesse imparato dalle società Usa in Cina come fare business. La bilancia commerciale tra i due paesi è di oltre 400 miliardi di dollari l'anno. Poco esplorato, infine, è il rilancio di molte imprese americane, da Kentucky Fried Chicken, a Federal Express, alla Avon, grazie alla presenza nel mercato cinese.

L'America, scrive Karabell, non deve porsi il problema di sfidare la crescita cinese, ma decidere se opporsi o accettare la fusione con la Cina. L'istinto che prevale è difensivo, quello di chi pensa che per confermare lo status di paese leader gli Stati Uniti devono restare più potenti degli altri.

Negli ultimi decenni, l'America ha cercato spesso di coinvolgere la Cina negli scenari globali, offrendole ogni volta una posta sempre più alta al tavolo della pace mondiale, non rinunciando mai a mantenere il bilanciamento dei poteri nella regione a favore degli alleati democratici e degli interessi degli Stati Uniti. All'inizio della presidenza Obama, l'atteggiamento è cambiato. Il nuovo paradigma è diventato quello della strategic reassurance, ovvero fornire ai cinesi la garanzia strategica che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di contenere la loro crescente potenza.

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Tags Correlati: Carlo De Benedetti | Hillary Clinton | Hu Jintao | Obama | Pechino | Politica | Robert Kaplan | Stati Uniti d'America | Zachary Karabell

 

L'approccio obamiano non ha funzionato. Il G-2 non è riuscito a sostituire la leadership americana nella governance mondiale. Pechino non ha allentato la presa contro i dissidenti interni, nonostante gli americani avessero smesso di criticare la gestione dei diritti umani e politici. La Cina ha interpretato le aperture obamiane come un segnale di debolezza, complice anche la crisi finanziaria. «Ora siamo noi i padroni» è diventato lo slogan più ripetuto a Pechino, racconta Ferguson.

Obama è un politico pragmatico. Appena si è reso conto che il reset con Pechino non produceva risultati ha intrapreso una politica più realista.
I rapporti con gli alleati dell'area, e con l'India, sono tornati al centro dell'agenda, come suggerito da Robert Kaplan in Monsoon (Random House). L'anno scorso Hillary Clinton diceva che la questione dei diritti umani era secondaria, ora spiega che se la Cina continuerà a reprimere le libertà non potrà mai realizzare le promesse di una grande nazione. Il significato di strategic reassurance è cambiato: la Cina deve rassicurare il mondo che il suo sviluppo e la sua crescita non minacciano la sicurezza e il benessere degli altri. Una rassicurazione pacifica, in un sistema economico intrecciato.

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