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La camicia di forza del buy back

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2011 alle ore 11:36.
L'ultima modifica è del 22 gennaio 2011 alle ore 11:36.

Ora la Germania chiede il conto. Disposta ad ampliare i compiti dell'Efsf, il fondo di salvataggio, vuole però in cambio grandi riforme. In questo modo il Cancelliere Angela Merkel può tener calmo il suo elettorato e i partner del governo, preservando la struttura di Eurolandia (e dell'Unione, se il meccanismo fosse davvero allargato anche agli altri paesi Ue).

In astratto c'è poco da obiettare. Ovunque, i salvataggi sono consistiti nello spostare i debiti da istituzioni più vulnerabili a quelle meno vulnerabili: dalle aziende di credito agli stati e ora, in Eurolandia, a un fondo centrale che - indebitato a sua volta con tutti i governi Ue - potrebbe acquistare titoli di stato dei paesi deboli in un'operazione di buy back.

L'esperimento sembra dover iniziare con la piccola Grecia, anche per valutare la reazione dei mercati e le ripercussioni sui conti delle banche che hanno sottoscritto bond di Atene, ma l'idea tedesca - secondo il Wall Street Journal e il Financial Times - è quella di adottare il meccanismo per tutti i paesi periferici. Il fondo che nel 2013 prenderà il posto dell'Efsf potrebbe quindi riacquistare sul mercato i titoli di stato a un prezzo inferiore (per esempio 80) di quello di emissione (convenzionalmente fissato a 100). Sugli investitori ricadrebbe la scelta di accettare l'offerta di 80, se considerano il bond a rischio, o di aspettare l'eventuale rimborso a scadenza del capitale (a 100).

Funzionerebbe? «È difficile dire se questa è una soluzione per rendere di nuovo sostenibile il debito: dipenderà dal prezzo di mercato o dal prezzo di acquisto al momento in cui l'operazione viene effettuata», spiega Laurence Boone di Barclays. Gli acquisti da soli non bastano, infatti. Spostare i debiti e distribuire meglio le perdite, se sostenibili, non è sufficiente. Occorre anche aumentare la capacità di ripagare il dovuto, o almeno una gran parte. È per questo che la Germania insiste sul tema della condizionalità.

Nulla di nuovo: sono obblighi chiesti anche dall'Fmi in cambio dei suoi prestiti. L'obiettivo è stimolare la crescita e destinare il reddito così generato a pagare le intemperanze e gli sprechi del passato. Secondo il Wsj la Germania starebbe pensando a qualcosa di molto simile alle "sue" riforme, anche se il quotidiano ricorda solo l'innalzamento dell'età pensionistica, l'abolizione di ogni legame (in stile "scala mobile") tra salari, pensioni e l'inflazione, l'obbligo di bilanci pubblici in pareggio e l'armonizzazione dei sistemi fiscali. Le basse tasse irlandesi danno ancora molto fastidio, evidentemente...

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Tags Correlati: Angela Merkel | Borsa di Hong Kong | Efsf | Fmi | Germania | Grecia | Laurence Boone | Partito Comunista | Paul Romer |

 

Si può discutere se queste misure, che sembrano puntare soprattutto a stabilizzare, forse congelare, i conti pubblici, siano sufficienti a stimolare la crescita. C'è quindi la possibilità che la Germania, in concreto, chieda anche di più. In ogni caso il meccanismo crea due problemi. Uno tecnico, l'altro invece strategico. Se gli acquisti dell'Efsf richiedono, come mossa preliminare, l'apertura di una "trattativa" per definire il programma di intervento, il solo inizio di una procedura di salvataggio potrebbe causare effetti sui mercati difficilmente prevedibili. Si corre il rischio di arrivare troppo presto, e scatenare - come in una profezia che si autoavvera - il problema che si vorrebbe risolvere; o troppo tardi.

Poi c'è il problema del conformismo, che uccide l'innovazione. Sono noti i danni causati ai paesi emergenti causati dai programmi "a taglia unica" (one-size-fits-all) dell'Fmi. Quanta armonizzazione può allora sopportare la ricca Europa senza perdere slancio? Se un coordinamento, in un'Unione monetaria, è assolutamente necessario, l'appiattimento è la critica più fondata al progetto europeo.

Modelli perfetti non esistono. Le economie ricche devono le loro fortune alla coesistenza di sistemi e politiche diverse in un'area più o meno omogenea. Così è stato per l'Europa, per il federalismo degli Stati Uniti - privo delle gerarchie della "sussidiarietà" che tanto piacciono a Bruxelles - e per il Giappone postfeudale. Così è anche per molti paesi emergenti. Quanto deve il miracolo cinese alla concorrenza di Hong Kong? Non può sfuggire che il partito comunista, a Pechino, stia "simulando" un sistema policentrico prima creando le zone economiche speciali, poi dando a ciascuna regione diverse priorità di sviluppo. Altrettanto si può dire dell'hi tech indiano, nato in un mondo quasi parallelo rispetto al capitalismo oligarchico e "di stato" lì dominante. È da queste esperienze che si sta sviluppando l'idea - la punta più avanzata sono le charter cities immaginate dall'economista Paul Romer, il teorico della crescita endogena in odore di Nobel - di una "concorrenza tra regole" o "riforme".

L'Unione europea si è fondata finora su un equilibrio tra armonizzazione e autonomia che è stato non solo la sua fortuna, ma anche la sua storia di lungo periodo. Il tentativo di creare un'Europa made in Germany - oltre a basarsi sul presupposto che il successo tedesco possa continuare a lungo, cosa di cui molti dubitano - rischia di alterare l'intero progetto. È sicuramente difficile resistere alle pressioni, quando si chiamano i paesi più "razionali" a pagare per le proprie intemperanze - di questo in fondo si parla - ma è anche vero che il prezzo potrebbe essere troppo alto per tutti. Anche perché qualche sistema alternativo - come quello delle linee di credito flessibili dell'Fmi, privi di condizioni - sono in fondo a disposizione. Almeno in alcuni casi.

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