Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2011 alle ore 08:13.
Cento anni fa nasceva Ronald Reagan, il quarantesimo presidente degli Stati Uniti. La data è il 6 febbraio. Trent'anni fa, il 30 gennaio 1981, il Grande Comunicatore entrò per la prima volta alla Casa Bianca. La mattina che ne uscì, a fine gennaio 1989, il suo consigliere per la Sicurezza nazionale Colin Powell, primo afroamericano a ricoprire quel ruolo, gli disse una frase da classico happy ending di un film hollywoodiano: «The world is quiet today, Mr. President». Il mondo era tranquillo.
La frase di Powell era un omaggio al presidente che aveva vinto la Guerra Fredda.
Era un successo ottenuto grazie a un ottimismo incrollabile, a una fede nella superiorità del modello capitalista e alla precisa volontà di diffondere il vangelo della democrazia. Reagan credeva nella libertà individuale, nel libero commercio ed era certo che il fascino del mercato sarebbe stato irresistibile per tutti e ovunque nel mondo.
Reagan è l'uomo che ha fatto sognare l'America, dopo gli anni del "malessere" di Jimmy Carter. Reagan ha invocato una «nuova mattina» per il suo paese e una nuova missione per «la città illuminata sulla collina». L'America di Reagan, come diceva Abramo Lincoln e come ripete anche Obama, è «l'ultima e la migliore speranza dell'uomo su questa terra». Reagan era un entusiasta dell'innovazione e del progresso tecnologico, ma da buon conservatore era anche il sacerdote delle memorie del passato (e il passato, per lui ex democratico e sindacalista, erano anche le conquiste progressiste del New Deal di Franklin Delano Roosevelt).
Ma la Guerra fredda fu vinta anche grazie a un aumento straordinario dell'apparato militare, ai tempi male interpretato dagli oppositori come una folle corsa verso la guerra. Reagan, invece, era ossessionato dal pericolo di una guerra nucleare. Era certo che l'Unione Sovietica fosse economicamente troppo vulnerabile per competere con l'America in una precipitosa e costosa corsa agli armamenti. Definiva Mosca «l'impero del male», tra lo sgomento dell'establishment di politica estera occidentale, perché credeva che il messaggio di libertà e di speranza avrebbe trovato ascolto all'Est e invigorito la dissidenza comunista. Quando individuò in Mikhail Gorbacev l'interlocutore adatto a chiudere il conflitto con i sovietici, andò avanti senza preoccuparsi di chi lo accusava di essere un ingenuo. Margaret Thatcher disse che il grande merito di Reagan è stato quello di aver vinto la guerra senza sparare un colpo.