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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2011 alle ore 09:09.
Chi prevedeva che la crisi tunisina avrebbe avuto un effetto domino nei paesi arabi della regione da ieri ha in mano un argomento inoppugnabile: gli slogan e le rivendicazioni sui manifesti di diverse città egiziane erano molti simili a quelli rivolti pochi giorni fa contro il presidente Ben Ali. L'unica differenza è che al posto del nome del dittatore tunisino vi era quello dell'anziano presidente egiziano, Hosny Mubarak, 82 anni, da 29 al potere, e di suo figlio Gamal, il candidato alla successione. Entrambi erano invitati a seguire l'esilio di Ben Ali. Difficile prevede l'epilogo della manifestazione di ieri, la più grande dal 1977.
L'Egitto non è la piccola Tunisia, ma il più popoloso paese del mondo arabo. Il suo controverso governo, per quanto corrotto e recalcitrante a vere riforme democratiche, è un alleato importante degli Usa, un tappo di contenimento contro l'avanzata dei partiti islamici. Ma le modalità attraverso cui è esplosa la rivolta - il ricorso ai social network come arma usata dalle masse - lasciano presagire che possa ripetersi altrove. Come in Egitto, anche in Algeria i segni dello scontento ci sono da tempo: disoccupazione, rincari alimentari, corruzione e un benessere che si vede solo sulla carta.