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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2011 alle ore 09:04.
L'ultima modifica è del 01 febbraio 2011 alle ore 09:04.
Come evolverà a breve termine la situazione in Egitto?
L'unica cosa certa è che l'esercito giocherà un ruolo chiave; lo sta già giocando. Tenterà di garantire, in accordo con Omar Suleiman, una transizione controllata, liberandosi di Mubarak e formando un governo di transizione. Ma non è detto che la cosa riesca: la tensione interna resta altissima. Le elezioni sono uno scenario più distante. È difficile dire che tenuta possa avere ElBaradei: rischia di essere, se anche andasse al potere, un Gorbaciov arabo.
Quale ruolo può avere l'Occidente in questa fase storica?
Occidente è una nozione vaga. L'America ha un ruolo chiave perché per decenni ha dato massicci aiuti economici e militari al regime egiziano: seicento miliardi di dollari in 30 anni. Oggi, quando Obama chiede un cambiamento sostanziale, ha delle leve in mano ma eredita gli errori compiuti dall'America. L'Europa è molto meno influente, anche perché l'Unione per il Mediterraneo non funziona: è stata basata sul sostegno fuori tempo massimo a regimi impopolari.
Quale lo scenario di lungo periodo: stretta del regime, più democrazia o terza via?
Nei nostri schemi c'è un'alternativa secca. O un regime militare, anche se formalmente più liberale; o una democrazia illiberale, una specie di nuovo Iran, con i Fratelli Musulmani al potere e i rischi che ciò comporta, a cominciare da un peggioramento netto dei rapporti con Israele e con gli Stati Uniti. Ma c'è anche una terza ipotesi: il modello di riferimento potrebbe diventare la Turchia di oggi.