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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2011 alle ore 08:29.
L'articolo 2 dello schema di decreto legislativo sul federalismo fiscale in discussione alla Commissione bicamerale prevede l'introduzione di una "cedolare secca sugli affitti" sostitutiva dell'Irpef e delle relative addizionali nonché dell'imposta di bollo e ove altrimenti applicabile dell'imposta di registro.
Il regime sostitutivo – su opzione del contribuente – è pari al 20% del canone di locazione. Il ministro della Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, ha proposto una doppia aliquota che, nella formulazione attuale, è rispettivamente del 19 e del 21% per differenziare locazioni vincolate e di libero mercato. È una delle misure chiave del federalismo fiscale e forse per questo lo schema di provvedimento non ha considerato la rilevanza della norma per le locazioni di immobili esteri.
Il riferimento ai soli "redditi fondiari" comporta che l'attuale versione della norma proposta si applichi solo agli immobili siti in Italia e non a quelli esteri, che sono sempre produttivi di "redditi diversi" (articolo 67, comma 1, lettera f del Tuir). L'inquadramento tra i "redditi diversi" risale alla riforma tributaria del 1971 e deriva dalla circostanza che l'impianto delle norme impositive del reddito immobiliare è imperniato sulla rendita catastale e quindi non estendibile agli immobili esteri, il cui reddito è pari a quello derivante dalle norme tributarie dello Stato estero (salva in via residuale la tassazione del canone di locazione ridotto del 15 per cento). La base imponibile così determinata è poi assoggettata in Italia a Irpef con aliquota progressiva.
La cedolare secca pare allo stato attuale discriminatoria nella misura in cui esclude i redditi da locazione di immobili esteri. Ciò determina, infatti, un disincentivo agli investimenti immobiliari in altri Stati in contrasto con i principi comunitari di libera circolazione dei capitali tra i quali rientra l'investimento immobiliare (articoli 63 e seguenti del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea). La discriminazione riguarda peraltro non solo gli investimenti negli Stati della Ue, poiché le norme comunitarie sulla libera circolazione dei capitali riguardano anche i rapporti con Stati terzi.