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Commenti e Inchieste

Troppo rumore per nulla

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2011 alle ore 07:10.
L'ultima modifica è del 04 febbraio 2011 alle ore 10:05.

Diciotto mesi dopo il suo insediamento, la commissione d'inchiesta sulla crisi finanziaria, nominata dal governo americano, ha finalmente pubblicato i risultati della sua indagine. Le aspettative erano elevatissime. Dalla commissione Pecora, creata per investigare il crack di Borsa del 1929, alla commissione Warren, per investigare l'assassinio di John Kennedy, dalla commissione Rogers, per investigare l'esplosione dello shuttle Challenger, alla commissione 9/11, per investigare il fallimento dei servizi segreti nel prevenire l'attacco alle Torri Gemelle, negli Stati Uniti le commissioni d'inchiesta hanno sempre avuto una funzione catartica. Identificando gli errori passati si creano le condizioni per non ripeterli.

L'esempio più brillante in questo senso fu la commissione Rogers che identificò con precisione la causa dell'esplosione dello shuttle Challenger in una guarnizione del serbatoio, resa difettosa dalla bassa temperatura. Un membro della commissione, il premio Nobel per la fisica Feynman, fu addirittura in grado di dimostrare di fronte alle telecamere la validità delle conclusioni della commissione: immerse la guarnizione incriminata per pochi secondi in un bicchiere di azoto liquido (per simulare l'esposizione a basse temperature) e fece vedere che la guarnizione si rompeva.

L'economia non è una scienza sperimentale come la fisica, e quindi non ci si poteva aspettare un simile eureka. Ma non ci si aspettava neppure che la commissione Angelides (dal nome del suo presidente) fallisse a tal punto da produrre non uno ma tre diversi rapporti: uno per la maggioranza democratica e due per la minoranza repubblicana. Per di più il rapporto della maggioranza si legge come un avvincente romanzo, non come un'indagine scientifica. I responsabili non mancano: dalle carenze della regolamentazione e della supervisione, ai fallimenti della corporate governance; dall'eccessivo indebitamento a un collasso dell'etica; dall'instabilità causata dalla diffusione dei derivati in mercati non regolamentati agli errori delle agenzie di rating. Non viene risparmiato neppure il governo: «impreparato alla crisi» che «con la sua reazione incoerente ha alimentato l'incertezza e il panico sui mercati finanziari». Perfino l'attuale segretario del Tesoro Geithner, che presiedeva la Fed di New York durante la crisi, viene accusato di impreparazione e ritardi.

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Tags Correlati: Angelides | Borsa Valori | Citibank | Fannie | Fed | Illeciti | John Kennedy | Peter Wallison | Robert Rubin | Rogers | Stati Uniti d'America

 

La conclusione è che la crisi era anticipabile ed evitabile, conclusione rigettata dal primo dei due rapporti della minoranza, che accusa il rapporto ufficiale di soffrire del senno di poi. Ex post le bolle speculative sono facilissime da riconoscere, ex ante molto meno.
La parte più interessante di questo rapporto è il paragone internazionale. La bolla nel mercato immobiliare non è esistita solo negli Stati Uniti: Spagna, Irlanda, Inghilterra, Australia e tanti altri paesi hanno sofferto dello stesso problema. Come è possibile accusare la regolamentazione americana quando questo è stato un fenomeno globale? Lo stesso vale per indebitamento del settore finanziario.

Il problema fondamentale, però, non è come evitare la prossima bolla immobiliare. Possiamo stare tranquilli che per i prossimi venti o trent'anni gli operatori economici, scottati dall'esperienza di questa crisi, staranno molto attenti. Il problema è come evitare che una crisi che inizialmente era molto limitata (una perdita di mezzo miliardo di dollari sui mutui subprime) possa far crollare il sistema finanziario mondiale. Anche se eviteremo la prossima crisi immobiliare, non possiamo evitare che in futuro il sistema finanziario subisca delle perdite simili: come renderlo allora più sicuro?

Come è noto, il meccanismo di amplificazione fu l'elevata leva finanziaria, resa particolarmente letale dalla forte componente di indebitamento a breve. Il quesito fondamentale, a cui nessuno dei due primi rapporti risponde è perché il settore finanziario ha assunto tutto questo rischio. È stata la risposta razionale alla garanzia implicita offerta dal governo o l'incompetenza e l'irrazionalità degli operatori?

La tesi sostenuta dal rapporto ufficiale (che sia colpa delle remunerazioni eccessive dei manager finanziari) non risolve il problema. Gli incentivi spingono ad assumere un rischio eccessivo perché questo è nell'interesse degli azionisti o contro il loro interesse? La risposta a queste domande determina il tipo di reazione politica necessaria. Nel primo caso basta limitare il sussidio implicito, nel secondo è necessario ripensare in maniera più drastica l'intero sistema capitalistico.

Il rapporto ufficiale oscilla tra le due interpretazioni. Da un lato dedica ampio spazio agli incentivi perversi creati dalla Federal Reserve Bank, che salva sempre gli operatori finanziari in difficoltà. Ma parla di fallimento del risk management e della corporate governance, che inducono i manager ad assumere troppo rischio. Dato il sussidio implicito nella politica della Fed, però, remunerazioni che favoriscono l'assunzione del rischio sono nell'interesse degli azionisti. In questo caso il problema sarebbe un risk management troppo efficace, che induce i manager a massimizzare l'interesse degli azionisti anche quando questo minaccia la stabilità del sistema, non troppo debole.

Dall'altro lato, a supporto della tesi "irrazionale", il rapporto riferisce le testimonianze di molti operatori, tra cui Robert Rubin ex segretario del Tesoro di Clinton e al tempo della crisi presidente di Citibank, che affermano di non aver avuto alcuna idea del livello di rischio assunto dalle loro istituzioni. Sono semplici giustificazioni ex post o è l'evidenza che le istituzioni finanziarie sono diventate troppo grandi per essere gestite?

A questi dubbi fornisce una risposta chiara il terzo rapporto, scritto da Peter Wallison, un politico repubblicano che lavora all'American Enterprise Institute. Da sempre Wallison va dicendo che la colpa è tutta di Fannie e Freddie, le due istituzioni semipubbliche che garantiscono la maggior parte dei mutui americani. Nel suo rapporto, Wallison ribadisce questa tesi. Numeri alla mano, dimostra che Fannie e Freddie hanno sottoscritto molti più mutui subprime di quanto si pensasse. Il crollo di questo marcato, quindi, non è stato il proverbiale mozzicone di sigaretta gettato su un deposito di benzina (le banche fortemente indebitate), ma un'esplosione nucleare, che avrebbe travolto chiunque. Quindi assoluzione piena del settore privato: tutta colpa del pubblico.

Per quanto mi piacerebbe credere a questa tesi, non mi convince. Fannie e Freddie garantiscono i mutui che sottoscrivono. Una loro maggiore presenza nel mercato subprime aumenta la stima delle perdite a carico del contribuente, ma non cambia la dimensione delle perdite subite dalle banche. Rimane la triste realtà che il mercato finanziario si è dimostrato incapace di assorbire perdite relativamente limitate.
Nonostante i tre rapporti, rimane il dubbio se le nuove regole della finanza americana, approvate prima della conclusione dell'indagine, siano adeguate a evitare le crisi future. In questo la commissione Angelides ha fallito. Gli americani (e il mondo intero) non dormono sonni più tranquilli.

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