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La Bastiglia sotto le piramidi

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2011 alle ore 08:14.

C'è stato qualcosa di sublime - o di ridicolo, forse? - dal punto di vista della tempistica. Sul cocuzzolo delle loro Alpi, i soliti "padroni dell'universo", in eleganti completi di sartoria, erano riuniti a Davos per riflettere sul "mondo reale", ordinato così come si immaginano che esso sia. Rimuginavano su chi dovesse tirare le corde e quali e chi fosse appeso all'estremità di quella finanziaria. E tutto ciò accadeva nel momento stesso in cui, lontano da lì, all'ombra delle piramidi, le folle si mettevano in marcia, sotto l'influenza di quella vecchia inesorabile, fatidica ed eccezionale avventura umana che si chiama rivoluzione.

Il potere del popolo. Le masse percorse da un'unica vibrante partecipazione. Il contagio rabbioso dell'euforica solidarietà. L'ebbrezza di una folla che cammina spalla a spalla, accalcandosi nelle piazze della modernità, prendendo in scacco uno stato intero, imprigionando il leader che si era votato da sé all'eternità, infrangendo l'aura della sua sovranità. Una rivoluzione vera, insomma, con tutto lo splendore e la coinvolgente potenza priva della testa, così come è stata rappresentata da Delacroix.

Ci eravamo abituati alle nostre sventure impersonali, di multinazionali a discapito dell'ambiente: un'epidemia, una perdita di greggio in mare, un terremoto, il tracollo finanziario provocato da chi bazzica nelle tenebre del derivati. Ci eravamo abituati al fatto che la rude potenza di un'insurrezione senza forma potesse coglierci preparati in assetto di difesa. Prima ancora che qualcuno evochi Danton, una moltitudine di gente munita di altoparlanti converge in uno di quei luoghi nei quale pare che si faccia e si stia facendo la Storia, ma scopre di essere regolarmente fuori sincronia rispetto ai suoi stessi movimenti bruschi e imprevedibili; stordita dalla frenesia (all'inizio della settimana scorsa si descriveva l'atmosfera di piazza Tahir ricorrendo a un cliché, e dicendo che c'era un "clima da festa popolare"), ma mai pronta veramente a precipitare nel terrore sanguinario che quasi sempre è il prezzo da pagare; e sconvolta, sconvolta davvero all'idea che le troupe televisive possano essere lì a registrare qualsiasi atto brutale che si verifichi.

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In realtà non dovrebbero esserne sorpresi. Se le guerre e perfino le azioni terroristiche sono pianificabili ed eseguibili tenendo un occhio incollato al telegiornale della sera, le rivoluzioni urbane restano fisse in quell'arco di tempo appartenente al XIX secolo durante il quale erano uno stile di vita che, politicamente, portava a scandire slogan, cantare, marciare; in cui la fame e la rabbia procedevano a braccetto; uno scenario del tutto nuovo per il mondo arabo (nonostante il Cairo e Alessandria abbiano avuto i loro tumulti popolari nel 1882), ma del tutto familiare nella loro convulsione e nel loro pathos, la loro ebbrezza e la loro sofferenza sanguinaria a chiunque di noi abbia trascorso almeno un po' di tempo a studiare le rivoluzioni e le controrivoluzioni del passato.

Madre di tutte le rivoluzioni fu, naturalmente, quella francese del 1789, quando la crisi dovuta all'impennata dei prezzi e alla penuria dei generi alimentari si tradusse in una precisa richiesta di rappresentanza politica. Non importava che i voti non potessero essere "mangiati" (come del resto finiranno con lo scoprire gli egiziani): le masse pretesero un'assemblea nazionale che obbligasse i sovrani a rispondere del loro operato, che garantisse che fossero ascoltate le richieste del popolo, non quelle della cricca dei corrotti. Non avrebbero più dovuto esserci censura e violenze arbitrarie da parte delle forze dell'ordine.

Suona forse familiare tutto ciò? La crisi si estese e dilagò, proprio come accade ora in Egitto, nel pieno di un'epoca di modernizzazione economica, non di arretratezza. Ad alimentare le fiamme della rivoluzione furono proprio la sperequazione nella distribuzione dei vantaggi apportati dal processo di modernizzazione, la piaga di una gioventù colta e preparata ma senza lavoro, la sensazione lacerante che dietro l'angolo vi fosse l'alba di una nazione nuova, rinata, alla quale avrebbero finalmente potuto sentirsi di appartenere. E poi, come sempre, ci fu il Terrore: nel 1789 assunse le sembianze di un esercito senza volto di briganti sguinzagliati - così si disse - dal vecchio regime contro la cittadinanza inerme per poterla ridurre all'obbedienza. In Egitto si ritiene che l'apertura delle carceri sia l'ultima mossa dello stato di polizia, ma si dà per scontato che il pericolo rappresentato dai delinquenti usciti di prigione possa spaventare gli insorti e ridurli all'ordine. Questa tattica si ritorcerà contro il regime egiziano, come si ritorse in Francia. Invece di uscirne intimorito, l'istinto all'autodifesa portò alla creazione di una milizia di cittadini armati.

Nel lungo XIX secolo, agli sconfitti e ai disillusi hanno fatto sempre seguito nuove generazioni di giovani le cui teste quasi giravano per l'elisir della rigenerazione rivoluzionaria. L'urbanizzazione dello stato involontariamente li ha sempre aiutati. Quei complessi formati da edifici mastodontici e spazi creati dai governi per reclamizzare la loro grandeur moderna - piazze, parchi, edifici del parlamento, palazzi, tribunali -, il più delle volte ubicati al centro delle città, sono sempre stati bersagli perfetti per mobilitare le folle, indurle ad assediare e invadere. E i lavoratori-automi della cultura cittadina - editori, studenti, intellettuali-scrittori, cancellieri dei tribunali - riuscirono a fare causa comune con la massa degli afflitti per questioni economiche, sufficientemente a lungo da poter quanto meno fantasticare di reggersi vicendevolmente a braccetto per sempre con le virtuose truppe del popolo. Il tocco finale è sempre stato una sorta di leadership apparente - gli elementi più radicali nelle classi politiche -, in grado di illustrare nei dettagli il futuro in nome del quale i soldati e i fanti della libertà avrebbero presidiato le barricate.

Barricate che gli abitanti del Cairo inizialmente neppure avevano, come non avevano alcun tipo di leadership coerente in grado di prospettare qualcosa di più oltre alla partenza di Hosni Mubarak. Una volta che quest'ultimo ha reso noto che finirà con l'andarsene per davvero, per tenere insieme e coese queste masse di persone così socialmente diverse occorreva un nuovo elemento unificante, a fronte dei capitali, del petrolio e perfino del cibo che, a un certo punto, scompaiono. Sembrava che ciò per cui si era scatenata la rivoluzione fosse indurre l'esercito a non fare ciò che fu fatto in piazza Tienanmen.

Purtroppo, il vincolo fraterno che pare legare i soldati e i manifestanti potrebbe presto rivelarsi una rischiosa illusione. Il classico scenario delle insurrezioni urbane invariabilmente prevede che il governo autoritario e il suo apparato di polizia alla fine si trovino davanti a un autentico dilemma. Una volta fatte le debite concessioni alla popolazione (che in ogni caso si riservano il diritto di ritrattare in seguito, perché estorte con la costrizione), che si fa? Ci si limita semplicemente ad attendere che la coalizione degli ostili avversari si disintegri? O che in preda alla fame la gente abbandoni le élite di chi sa convincere e parlare? Oppure, senza sprecare tempo, si rivolgono le armi contro i rivoluzionari e li si terrorizza fino a dominarli? Il rischio implicito in questa scommessa era (ed è tuttora) far sì che la repressione armata non provochi un tumulto ancora più indomabile della rivoluzione che si supponeva dovesse soffocare.

Le autocrazie moderne - e le teocrazie come l'Iran - hanno messo a punto tutta una serie di modalità intimidatorie che evitano il rischio di tendere al massimo grado di sopportazione la fedeltà delle forze armate arruolate. E dunque le tirannie che cercano di difendersi scatenano e sguinzagliano la marmaglia dei delinquenti paramilitari, armati di proiettili di gomma, sfollagente, gas lacrimogeni, cannoni ad acqua - e cammelli d'assalto -, spesso addirittura camuffati da milizie cittadine prese d'assalto dalla slealtà di coloro che ne sanno troppo.

La tempestività è tutto. Come lo fu anche alla metà del XIX secolo, quando le autocrazie parvero accettare il governo parlamentare soltanto per convocare poi dalle caserme la cavalleria e l'artiglieria, dopo pochi mesi, quando la coalizione dei rivoluzionari ormai si andava sciogliendo per una sua intrinseca debolezza. La cosiddetta "primavera dei popoli" del 1814 si trasformò nella restaurazione autoritaria del 1849, a Berlino, Vienna, Budapest, Roma e Venezia. Gli uomini forti che indossavano le spalline e gestivano tetre prigioni affermarono che i veri figli della nazione erano loro - e non la marmaglia delle università e delle redazioni dei giornali - e finirono con lo sconfiggere le folle pressoché disarmate o gli indifesi tribuni della plebe. E l'assolutismo potè sopravvivere qualche altro decennio.

Ecco dunque la buona notizia che la Storia ci trasmette, quanto meno se ciò che cerchiamo è che nel mondo arabo prevalgano una volta per tutte le norme del vivere civile della democrazia. Ritardare in eterno queste norme basilari del vivere civile nel nome della sicurezza del momento confonde quel pizzico di respiro a breve termine con la vera sicurezza. E anche se si permetterà alle ferite inferte alla dittatura dalla sfacciataggine della popolazione di ricoprirsi di croste, sotto il tessuto cicatriziale quella ferita non guarirà mai davvero. E un giorno o l'altro la piaga si trasformerà in un piccolo rivolo di sangue e - prima ancora che possa accorgersene - il vecchio tiranno si ritroverà definitivamente in ginocchio e scomparirà.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© THE FINANCIAL TIMES

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