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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2011 alle ore 08:07.
L'ultima modifica è del 09 febbraio 2011 alle ore 06:39.
Due preoccupazioni hanno caratterizzato la reazione d'Israele agli eventi in Egitto, una ovvia, l'altra un po' meno. La prima è che se l'Egitto precipitasse nel caos o andassero al potere i Fratelli musulmani - che si oppongono strenuamente al trattato di pace con Israele - potrebbero essere in serio pericolo i trent'anni di pace continua tra Israele e il più importante paese arabo.
La seconda preoccupazione è rivolta a Washington, non al Cairo. Molti israeliani sono rimasti sconvolti dall'inconsistente reazione degli Stati Uniti agli eventi in corso in Egitto, talmente debole da rasentare l'incompetenza. Prima il presidente, poi il segretario di stato Hillary Clinton, infine l'inviato del presidente americano presso Mubarak non hanno fatto altro che altalenare fra una netta presa di distanze dall'alleato più fedele dell'America, l'esortazione ad andarsene e ulteriori suggerimenti a farlo nel minor tempo possibile, e poi - con una netta inversione di marcia - hanno avallato la "transizione ordinata" comandata da Omar Suleiman, il suo capo dell'intelligence.
Il rompicapo di fronte al quale si trova Israele è palese: essendo una democrazia, Israele dovrebbe accogliere con soddisfazione il processo di democratizzazione tra i suoi vicini; il fatto è che il regime di Mubarak è stato per Gerusalemme presupposto di pace, mentre le forze popolari si erano opposte al trattato di pace.
Gli israeliani si sono già trovati alle prese con questo dilemma in passato. Quando nel 1952 i Liberi ufficiali egiziani - uno dei cui capi era Gamal Abdel Nasser - abbatterono il regime corrotto del re Farouk, il primo ministro David Ben-Gurion salutò in loro i precursori della democrazia e della giustizia sociale. Da quella destituzione presero però vita il nasserismo - nocivo cocktail di nazionalismo panarabo espansionista, di socialismo autocratico di stato e di ideologia antioccidentale e anti-israeliana - e uno stato monopartitico, in definitiva un protettorato sovietico.
Se la situazione in Egitto evolverà verso una democrazia stabile, la pace con Israele si trasformerà da atto dovuto alla ragione di stato in una realtà basata su valori condivisi. Una simile eventualità renderà necessario un approccio più flessibile da parte del governo israeliano per ciò che concerne i negoziati con i palestinesi. Nel caso di un passo avanti dell'Egitto in direzione di un'autentica democrazia, ci si può facilmente aspettare che in Israele vi sarebbero pressioni interne molto forti in quella direzione. Sono tuttavia possibili anche altri sbocchi. Per decenni l'effettivo governo dell'Egitto è stato assicurato dall'esercito: la moderazione e il controllo di cui hanno dato prova i soldati nei confronti dei manifestanti, e il rispetto di questi ultimi per i soldati rannicchiati sui loro carri armati, indicano un rapporto complesso e simbiotico, grazie al quale l'esercito non è considerato solo il braccio esecutore dell'oppressione totalitaria (ciò che è in realtà) ma anche il simbolo dell'orgoglio nazionale.