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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2011 alle ore 08:24.
L'ultima modifica è del 10 febbraio 2011 alle ore 06:39.
41, 97 e 118: terno. Con un soprassalto d'energia riformatrice ieri il Consiglio dei ministri ha proposto di correggere tre norme costituzionali di cui fin qui pochi italiani avevano scoperto l'esistenza. Il fine è di rimettere in moto la locomotiva della nostra economia, e sarebbe pure l'ora. Ma sullo strumento è lecito avanzare qualche dubbio. Non perché la Costituzione sia un tabù, né una mummia da venerare nel sacrario. Dopotutto trattarla come un corpo inanimato è il modo peggiore di difenderla. Invece la Carta del 1947 è ancora viva, e i vivi di tanto in tanto hanno bisogno di ricorrere alle attenzioni d'un chirurgo.
Purché il chirurgo abbia la mano ferma, altrimenti verrai fuori dalla sala operatoria conciato in malo modo. Purché inforchi un paio d'occhiali, altrimenti c'è il rischio che t'incida l'arto sano anziché quello malato.
Insomma se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare: qui in Italia ne sappiamo qualcosa. Quante volte la politica ha confezionato riforme di bandiera, fazzoletti di carta da sventolare davanti agli elettori? Quante volte la riforma costituzionale si è rivelata un diversivo, un artificio per dissimulare tutta l'impotenza dei governi, scaricandone la colpa sul nostro testo fondativo? A leggere le prime dichiarazioni roboanti, verrebbe da dire: ci risiamo. Il ministro Sacconi ha scomodato Lévi-Strauss, salutando il passaggio a un'"antropologia positiva" nel rapporto fra la società e lo stato; nessuno ci ha capito un fico secco, ma suona così bene. Il ministro Brunetta ha avvisato i naviganti che d'ora in poi capacità e merito troveranno spazio nel dettato costituzionale; peccato che questo spazio fosse già stato ritagliato dai costituenti sessant'anni fa, precisamente nell'articolo 34 («I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»). Una norma dove peraltro si riflettono i principi del 1789, dove riecheggia la liberazione dei talenti promessa dalla Déclaration, ma rimasta appesa a un chiodo in quest'Italia sempre più ingiusta e diseguale.
Sicché vorremmo fatti, non parole. È un fatto - bisogna riconoscerlo - la stretta sui conflitti d'interesse annunciata sempre ieri dal governo, se è vero che in Italia l'80% di assicurazioni e banche ospita nei propri organismi direttivi soggetti con incarichi nei gruppi concorrenti (Antitrust, gennaio 2009). Ma è un fatto, anzi un misfatto, anzi una disfatta per la nostra economia pure il resoconto pubblicato ieri da questo giornale. Per esempio il piano delle piccole opere, messo in cantiere per un miliardo nel giugno 2009, deliberato dal Cipe per 413 milioni nel dicembre 2010. Colpa della Costituzione se l'esecutivo ci ha messo un anno e mezzo per soddisfare (a metà) le sue promesse? Colpa della nostra vecchia Carta se ci muoviamo in un reticolo d'albi professionali, ordini protetti, tariffe minime stabilite con tutti i crismi della legge? E non c'era forse l'articolo 41 - il grande imputato - quando Bersani inaugurò la sua rapida stagione di liberalizzazioni? Vari testimoni ammettono: c'era, e non si è messo di traverso. Qualcuno - più attempato - aggiunge che i costituenti non intendevano affatto generare una burocrazia lenta e cavillosa, altrimenti non avrebbero evocato il "buon andamento" dell'amministrazione, proprio nell'articolo 97 che adesso è finito sulla graticola dei ricostituenti.