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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2011 alle ore 08:34.
L'ultima modifica è del 11 febbraio 2011 alle ore 06:39.
Sorprendono molto alcune reazioni (ad esempio, Michele Ainis sul Sole 24 Ore di ieri) alla proposta governativa di modifica agli articoli 41, 97 e 118 della Costituzione. Dimostrano, infatti, una strana schizofrenia che scatta appena si cerca di riformare qualche aspetto della Costituzione: da un lato questa viene considerata sacra e intoccabile, anche rispetto a qualsiasi intervento pur solo di aggiornamento. Dall'altro qualsiasi cambiamento viene giudicato inutile, perché tanto le cause di quello che non funziona non deriverebbero dalla Costituzione.
Qui sta la schizofrenia: se è vera la seconda deduzione, perché tanto accanimento sulla prima conclusione?
La proposta del governo non intacca nessuno dei veri e grandi valori di fondo alla base della Costituzione italiana. È il contrario: la proposta va nella direzione di valorizzare l'antropologia positiva già implicita nel principio personalista dell'articolo 2. Basti ricordare quanto affermava Aldo Moro presentando l'articolo in Assemblea costituente: «Lo stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell'uomo che non è soltanto individuo, ma che è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello Stato».
Valorizzare questa antropologia positiva non solo supera la ormai stantia contrapposizione tra liberisti e statalisti, ma individua - lo ha chiarito Tremonti - una delle reali direzioni intorno a cui costruire il rilancio dell'intero paese. Il sistema italiano è infatti complicato da un'atavica e quasi irremovibile resistenza degli apparati e da un'intricata frammentazione delle competenze; è soprattutto affossato da radicate interpretazioni costruite sulla convinzione di un'antropologia negativa, stigmatizzata nella formula hobbesiana homo homini lupus. Se l'uomo è lupo per l'altro uomo, ci vogliono fiumi di regole per ingabbiare l'"animale", e tutto si risolve in quel paradosso per cui le regole non bastano mai. Il nostro paese si colloca al 78° posto in termini di libertà d'impresa.
Continuando così, in un contesto globale dove la competizione non è più solo tra imprese ma tra interi sistemi, la deriva verso il declino è inevitabile. Forse alcuni intellettuali non si rendono ben conto che in Italia ci vogliono a volte tre o quattro anni per ottenere una "Via", mesi e mesi per aprire una pizzeria (consiglio la lettura del libro di Luigi Furini, Volevo solo vender la pizza), o che una Sopraintendenza e un ufficio ministeriale possono bloccare per oltre un decennio la realizzazione di un'arteria stradale strategica. Salvo poi scoprire che mentre l'alluvione di regole bloccava chi voleva intraprendere onestamente, nella stessa Italia venivano alla luce 2 milioni di "case fantasma" scoperte dalle mappature aeree dell'Agenzia del territorio.