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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2011 alle ore 10:04.
Il presidente Barack Obama è travolto da critiche internazionali per la gestione della crisi egiziana, nonostante sia riuscito a ottenere, sia pure con un giorno di ritardo, le dimissioni di Hosni Mubarak da capo dello Stato. Non è poco. Quella del Cairo è una rivolta “made in Egypt”. Una rivoluzione, come la chiama al Jazeera, che ha colto di sorpresa non solo la sempre più improbabile Cia, ma anche l'esercito egiziano e i Fratelli musulmani.
Nell'era dell'informazione istantanea però non basta. Obama è chiamato a risolvere la questione alla velocità di un sms. C'è chi lo accusa di non spingere abbastanza per il cambiamento e chi invece di manovrare in modo irresponsabile per la rapida dissoluzione del regime. Il punto di domanda è sul dopo. I militari riusciranno ad amministrare una transizione verso la democrazia? La piazza si accontenterà dell'uscita di scena di Mubarak? I Fratelli musulmani conquisteranno la società, le istituzioni e il futuro degli egiziani?
Il timore è che Obama sia sul punto di perdere l'Egitto, uno dei paesi chiave dell'equilibrio invero instabile del Medio Oriente. Analisti ed editorialisti di qua e di là dell'Oceano hanno la soluzione a portata di mano, ma i polsi tremerebbero anche a loro se in questo momento si trovassero alla Casa Bianca.
I dubbi, i passi falsi, le contraddizioni della linea americana espressa in queste due settimane di rivolta mediorientale sono fisiologici, prevedibili, forse anche inevitabili, ma confermano l'impreparazione e le divisioni del team di sicurezza nazionale obamiano. Gli uomini della Casa Bianca spingono per la democratizzazione. Il Dipartimento di Stato di Hillary Clinton è più cauto. Il Pentagono ha un rapporto privilegiato con i militari. La sintesi non si è ancora trovata, ma non è una situazione molto diversa da quella vissuta negli anni delle battaglie intestine dell'Amministrazione Bush.
Obama prova a soddisfare la richiesta di libertà proveniente dalla piazza e a sostenere l'unica istituzione credibile del paese, quell'esercito che da 40 anni è il pilastro della società egiziana. Il rischio è di scontentare sia l'opposizione sia il regime. Se l'America si schiera con lo status quo si gioca il futuro nella regione; se abbandona il suo «son of a bitch», come Franklin Delano Roosevelt definiva i dittatori amici degli Stati Uniti, resta con un «son of a bitch» ma non più «suo».