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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2011 alle ore 13:57.
Sembra che l'Italia abbia voglia di dare un corpo alla politica. Nel senso di scendere in piazza e "prendere parte". E anche, mutuando la logica da stadio che da sempre confina con la politica, di vestirla (o svestirla) di una maglia, di un indumento, di un pezzo di stoffa che connoti appartenenza e identità. Si tratti delle mutande appese ieri al teatro Dal Verme di Milano, nell'adunanza organizzata da Giuliano Ferrara. O del "popolo viola" - e qui va bene una maglietta, un cappotto, perfino una bandana - che sempre ieri ha urlato da Roma a Milano contro il premier.
O della sciarpa bianca con cui oggi scenderanno in strada le donne offese dal caso Ruby. Ben venga la passione, a patto che sotto il vestito non ci sia il niente. Ed è proprio questo il sospetto, che dietro tanta stoffa brandita a mo' di bandiera le idee siano poche, gli slogan un po' vuoti e tutto si giochi sulla risacca lenta di un gioco delle parti già assegnate da tempo. Di qua le mutande di chi difende il premier, di là le sciarpe di chi lo attacca. Altro che gli eskimo del "pensiero forte" degli anni Settanta. L'impressione è che dietro i cortei - ripetiamo: ben vengano purché pacifici - ci sia una tensione di risulta, e non di scatto in avanti. Una guerra di trincea che non sposta gli equilibri, non innova, non dice una parola nuova. Se non fiori nei vostri cannoni, almeno mettete idee tra sciarpe e mutande.