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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2011 alle ore 08:27.
La parola "proroga" sa di ufficio pubblico, scartoffie e burocrazia; fedele al suo campo semantico, il «milleproroghe» era nato come provvedimento tranquillo e un po' grigio, che a cavallo d'anno s'incaricava di aggiustare il calendario della nostra macchina amministrativa e offrire un po' di tempo in più ad adempimenti che non hanno mai viaggiato alla velocità della luce. L'ingigantimento del milleproroghe è in corso da anni, ma la sua edizione 2011 tocca un record.
A dicembre era poco più di un'esile tabellina, al Senato ha imbarcato di tutto ed è diventato un po' manovra finanziaria (dalle riforme fiscali su fondi immobiliari e banche alle tasse su cinema e calamità) e un po' legge omnibus, che mentre si occupa del foglio rosa per i motorini riorganizza la Consob e ferma la liberalizzazione delle società locali. Senza dimenticare, naturalmente, di distribuire mance, aumentando i politici locali a Roma e Milano e rinnovando la solita triste sanatoria sui manifesti elettorali. Un'evoluzione inevitabile: se il parlamento non scrive più le leggi, ma si limita a ratificare le scelte governative, è ovvio che sui pochi treni che passano salga di tutto.