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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2011 alle ore 07:37.
La tradizionale economia dei mulini, non solo del Po, fu distrutta dall'arrivo delle macchine a vapore. L'avvento dei frigoriferi eliminò migliaia di posti di lavoro prima occupati nella produzione, trasporto e vendita di ghiaccio. I robot hanno preso il posto di molte lavorazioni che precedentemente erano svolte da operai. Ma si può sostenere che quelle tecnologie hanno ridotto l'occupazione? In realtà, no: hanno accompagnato l'urbanizzazione, generato enormi opportunità di crescita nel settore degli elettrodomestici, sviluppato i distretti dell'automazione. In sostanza, hanno fatto parte dell'epica vicenda della rivoluzione industriale.
Certo, ci sono società che imparano ad adattarsi alle grandi trasformazioni, altre ne sono travolte. Queste ultime non trovano certo consolazione nelle idee di Joseph Schumpeter, l'economista dell'innovazione tecnologica e della distruzione creatrice. Ma quelle idee servono ancora a impostare l'interpretazione di molti fenomeni di mutazione economica. E accompagnano la discussione anche quando si ripropone la domanda adattandola alle condizioni contemporanee: l'economia della conoscenza, alimentata dalle tecnologie digitali e dalla ricerca scientifica, distrugge occupazione o ne crea? Risposta: la trasforma e la trasloca. Ma si può già immaginare un bilancio? Solo a livello territoriale.
In effetti, quasi tutte le ipotesi che considerano la tecnologia come una causa di distruzione di posti di lavoro, molto probabilmente sono basate su una visione parziale del problema. C'è chi osserva che le imprese che vanno per la maggiore, come Twitter e Facebook, hanno pochissimi dipendenti. Ma c'è chi risponde che l'indotto di imprese che trovano un mercato per il loro software grazie all'esistenza di quelle piattaforme è invece enorme. Del resto, c'è l'evidenza del decremento dell'occupazione nella grande impresa in Occidente, ma c'è anche il fenomeno gigantesco della crescita dell'occupazione industriale in Asia. Il punto di vista varia con la posizione geografica dell'osservatore.
Chi afferma che la tecnologia digitale fallisce nella creazione di posti di lavoro commette un errore analogo a chi sostenesse che la finanza distrugge occupazione. Ma sono errori facilmente dimostrabili a San José e a Londra: chi vive nel distretto dell'elettronica globale e nel distretto finanziario più grande d'Europa non ha dubbi. In entrambi i casi si tratta di piattaforme che possono essere usate per creare nuovo lavoro, che si prestano facilmente a spostarlo in aree territoriali più convenienti, a riqualificarlo o a dequalificarlo. Per Peter Johnston, che alla Commissione europea si è occupato a lungo di sostenibilità economica e sociale dell'economia della conoscenza, la strada è considerare le piattaforme nella loro capacità di generare giochi a somma positiva. Il loro impatto si comprendere solo considerando l'insieme delle trasformazioni. E si tratta, probabilmente, di una vicenda epica quanto la rivoluzione industriale: l'economia della conoscenza nel contesto della globalizzazione.