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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2011 alle ore 08:50.
L'ultima modifica è del 17 febbraio 2011 alle ore 06:40.
L'enciclica di Benedetto XVI è stata ed è ancora per noi tutti, per credenti e non credenti, una straordinaria occasione di riflessione in questi anni di aspra crisi. Come Confindustria, e io personalmente come suo presidente, abbiamo espresso un giudizio molto positivo sulla Caritas in Veritate.
Ovviamente, non tocca a noi entrare nel merito teologico dell'analisi interpretativa ed evolutiva del magistero sociale della Chiesa, al quale l'enciclica ha aggiunto un nuovo importante mattone, sulla scia che dalla Rerum Novarum di Leone XIII passa per la Populorum Progressio di Paolo VI, la Laborem Exercens, la Sollicitudo Rei Socialis, e la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II.
Come imprenditori, ci tocca riflettere sulle parti dell'enciclica che più direttamente riguardano il mercato, lo Stato e il ruolo centrale dell'uomo. (...) L'impresa non è mai l'unica protagonista dei propri successi, né l'unica colpevole dei propri insuccessi. Ma oggi si sente impegnata come mai, per i colpi della crisi e per i gap storici del nostro paese, nella realizzazione comune di quella nuova "responsabilità sociale" indicata anche dalla Chiesa.
L'enciclica mostra anche quanto sia ormai superata la vecchia idea tradizionalmente associata a Max Weber, quella secondo la quale l'avversione della Chiesa cattolica per i beni terreni spiegasse un suo pregiudizio anticapitalista. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II prima di lui sostengono la crescita, rafforzandola con indicatori dello sviluppo umano come propongono tanti liberali come Amartya Sen. E riprendono la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, chiedendo un mercato in cui regole e principi pongano un limite alla finanza per la finanza. È semmai il mondo calvinista, quello che aveva dimenticato le buone regole di Adam Smith sulla fiducia e le regole da preservare, che ci ha regalato gli eccessi della finanza strutturata.
È per tutto questo che voglio e posso affermare che per la Confindustria, che ho l'onore di guidare, l'etica come fondamento dell'impresa non è una scelta che discenda dal solo fatto che sia giusta. Non serve solo a preservare meglio la comunità d'interessi che vive all'interno delle aziende. L'etica è un fondamento dell'impresa anche perché contribuisce a produrre migliori utili. Essa rafforza il presupposto basilare senza del quale non c'è libero mercato. Il libero mercato non è la lotta di tutti contro tutti in cui vince il più forte. È una gara entro un solido quadro di regole, nella quale deve primeggiare non il più forte ma il più bravo. Ed è un monito che deve valere in tutti gli ambiti del mercato. A cominciare dalla finanza da cui questa crisi è partita.