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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2012 alle ore 10:01.
L'ultima modifica è del 25 febbraio 2012 alle ore 08:15.

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È necessario essere ambiziosi e anche in tempi di crisi investire nella cultura. Lo deve fare lo Stato, ma all'appello non possono sottrarsi gli enti locali. Perché le città che hanno creduto nelle politiche culturali ne hanno sicuramente tratto beneficio anche in termini economici. È la tesi che fa da filo conduttore al rapporto presentato ieri a Roma da Civita e che riguarda proprio la vitalità culturale dei centri urbani.

I municipi che hanno investito maggiormente nell'industria creativa hanno visto crescere il reddito dei propri cittadini e aumentare le presenze dei turisti. E anche il tasso di disoccupazione è stato tenuto sotto controllo. Sono questi i parametri – in mancanza di dati specifici che possano fotografare l'impatto della cultura sull'economia delle città – che Pietro Valentino (uno degli autori del volume) ha preso in considerazione per capire quanto la creatività abbia giovato alla vita comunale. Si tratta di effetti – avverte Valentino – che devono per forza di cose essere approssimati, proprio per l'assenza di informazioni ad hoc e per il ricorso a dati riferiti alla fase pre-crisi, i più aggiornati. Fatte queste precisazioni, però, si possono comunque individuare tendenze comuni.

Per esempio, se si prende in considerazione l'andamento del reddito pro-capite, ci si accorge che città che negli ultimi anni hanno puntato di più sulla cultura e la creatività (è il caso di Bilbao, Weimar, Siviglia, Edimburgo), presentano tassi di crescita «nettamente superiori alla media europea». Il caso di Londra, che pure si trova nella parte alta della classifica, ha bisogno di alcuni distinguo. Non si può, infatti, attribuire la performance londinese interamente alle attività culturali, «perché – sottolinea Valentino – altri e più potenti settori possono aver contribuito» a quel risultato.

Di fronte a queste prestazioni viene da chiedersi come mai città che sono a elevata vocazione culturale o che comunque hanno investito nella creatività, non riescano a esprimere gli stessi risultati. È il caso di Marsiglia, Lione e Manchester, ma soprattutto – per guardare in casa nostra – di Roma e Firenze, città culturali per antonomasia. La spiegazione è da ricercare, secondo il rapporto di Civita, nel fatto che alcune realtà hanno iniziato a investire in cultura di recente o che le strategie culturali sono state poco integrate con le altre politiche di sviluppo urbano. Ma può anche darsi – motivo che più si attaglia alle nostre realtà – che si sia finora andati avanti beneficiando di una rendita di posizione, che ha rallentato nuovi investimenti.
Un'altra conferma indiretta del benefico influsso della cultura sull'economia delle metropoli è data dall'andamento della disoccupazione, diminuita (i dati si riferiscono al periodo 1999-2009) in tutte le città prese in considerazione, ad eccezione di Manchester. I motivi della riduzione dei disoccupati possono essere molteplici, ma in città come Bilbao, Weimar ed Edimburgo «non si può escludere – afferma Valentino – che la cultura abbia dato un suo non marginale contributo a questo risultato».

L'indicatore che sgombra il campo da ogni residuo dubbio è, però, quello del turismo: nell'ultimo decennio le presenze sono aumentate del 58,2% a Weimar, del 48,3% a Manchester, del 25,9% a Siviglia, mentre Roma cresce del 7,8% e Firenze dello 0,2.
Questo significa che, guardando nei nostri confini, anche le città che «più hanno investito in cultura, hanno una capacità di offerta nettamente inferiore a quella dei grandi poli culturali europei. Molto è stato realizzato in questi anni ma non è sufficiente». Viste le risorse sempre più risicate, bisognerebbe ricorrere a politiche culturali mirate e «realizzare solo infrastrutture di grande eccellenza». In poche parole, essere più ambiziosi.

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