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Questo articolo è stato pubblicato il 29 febbraio 2012 alle ore 09:07.

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Vista da Parigi, la pioggia di Oscar sul film muto The Artist non è solo la vittoria della rischiosa scommessa fatta dal produttore Thomas Langmann e dal regista Michel Hazanavicius ma dell'intera industria cinematografica francese. Di più: della battaglia che la Francia combatte da decenni sulla cosiddetta "eccezione, o diversità, culturale".

Dal 1990 le televisioni hanno un doppio obbligo: di destinare almeno il 2,5% dei loro ricavi alla produzione di film francesi e di dedicare metà della programmazione di film a opere francesi. Il risultato, secondo i sostenitori di un sistema che altri ovviamente accusano di protezionismo, è che nel 2011 la Francia ha prodotto 207 film, per un investimento complessivo di 1,13 miliardi. Gli ingressi sono stati 215 milioni, con incassi record per 1,4 miliardi. E la quota di mercato dei film francesi è stata del 41,6% (addirittura del 47,1% in gennaio). Al successo hanno contribuito la tassa sui biglietti e il fatto che la Francia ha più festival cinematografici, e di gran lunga, di qualsiasi altro Paese europeo.

Una politica, quella delle quote, che nel 1996 è stata estesa anche alla musica: le radio devono trasmettere il 40% di pezzi francesi, metà dei quali di "giovani talenti". L'obiettivo è proteggere la produzione culturale francese (e la stessa lingua) dall'invasione anglo-americana, ma anche sostenere un settore che in Francia è sempre stato ritenuto prioritario. Per ragioni politiche, sociali ed economiche.Una posizione antica, radicata, condivisa da destra e sinistra. Basti pensare alla decisione del generale Charles de Gaulle, nel 1959, di creare il ministero della Cultura, affidandolo a un personaggio come André Malraux. Cui si devono, tra l'altro, le Case della cultura diffuse sul territorio.

E che dire dei grandi cantieri culturali dei presidenti? Certo, i quaranta di François Mitterrand sono rimasti impressi nella memoria di tutti, dalla piramide del Louvre alla nuova Opera della Bastiglia, fino alla Grande Biblioteca di Bercy. Ma prima di lui il grigio e istituzionale Pompidou ha avuto il coraggio di costruire nel cuore di Parigi quel monumento all'architettura moderna (e all'arte contemporanea) che è il Beaubourg. Valéry Giscard d'Estaing ha trasformato l'ex gigantesco mattatoio della capitale nel Parco della Villette e in Museo l'ex stazione di Orsay. E dopo di lui Jacques Chirac ha arricchito Parigi del museo del Quai Branly. Solo Nicolas Sarkozy - se non dovesse essere rieletto - verrebbe ricordato per l'assenza di un grande cantiere culturale.

Lui può sempre difendersi accusando la crisi economico-finanziaria e ricordando che sotto la sua presidenza c'è stata la legge sull'autonomia dell'università, che ben 19 dei 35 miliardi del "grande prestito" sono andati a università e ricerca, con la creazione di otto super atenei. Un'industria culturale, quella francese, che è riuscita a "vendere" il Louvre (e la Sorbona) ad Abu Dhabi per qualcosa come un miliardo, sia pure spalmato su 30 anni. E dove non c'è museo che non abbia programmi mirati per i bambini. Non è tutto rose e fiori, sicuramente. Stufo delle diatribe politiche e delle lungaggini burocratiche, Henri Pinault per la sua fondazione ha scelto Venezia. E Bernard Arnault sta faticando per realizzare la propria. Ma il bilancio finale è positivo. Come sottolinea il direttore della strepitosa Opera di Lione disegnata da Jean Nouvel, che si è affidato a uno studio specializzato per dimostrare che ogni euro di finanziamento pubblico ne produce tre di ricadute economiche sulla città.

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