Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2012 alle ore 08:10.

My24

In Italia c'è un deficit infrastrutturale di cui si parla poco. È quello che riguarda la conoscenza. Adagiati su un patrimonio e una storia imparagonabili, abbiamo accumulato ritardi gravi nell'adeguare gli strumenti intellettuali con cui aggredire un mondo in rapida, drammatica evoluzione. È una necessaria ed importante iniziativa del Sole 24 Ore fare una riflessione a 360 gradi sulle implicazioni di questo ritardo e sul modo in cui porvi rimedio.
Abbozzate nel 1984 e pubblicate postume, le Lezioni americane di Italo Calvino iniziano con un ragionamento sui concetti di software e hardware.

Il grande scrittore aveva intuito - ben prima che le tecnologie dell'informazione rendessero il mondo "piatto" e globalizzato - che l'evoluzione della conoscenza, la sua capacità di dare risposte a domande e problemi sempre nuovi e diversi, sarebbe stata decisiva per il nuovo millennio. Quelle lezioni sono il testamento spirituale di Calvino e assumono un rilievo particolare ora che quel millennio è iniziato, segnando cambiamenti radicali nella geopolitica e nell'economia e approfondendo sempre più il divide tra chi possiede il valore aggiunto della conoscenza, della ricerca, del sapere scientifico e chi invece rimane indietro per motivi legati ad un sottoviluppo atavico o - peggio - a scelte, politiche e comportamenti sbagliati.

La competizione globale avviene e avverrà sempre più sul piano del capitale umano, del know how, della capacità di presidiare i segmenti produttivi a più alto valore aggiunto. La competizione dunque non potrà prescindere dalla "infrastruttura" della formazione e dell'istruzione e dobbiamo riconoscere che il nostro Paese è - oggi - in una posizione di relativo svantaggio. Per questo accolgo con favore la "costituente per la cultura" lanciata da questo giornale.
Una delle cause della bassa crescita del Pil italiano rispetto a quello dei maggiori e diretti competitor può essere ascritta all'inadeguatezza di un sistema di formazione che non riesce a produrre figure e professionalità necessarie a sostenere la competizione e quindi lo sviluppo.

L'Italia nel 2008 ha speso il 4,8% del Pil per l'istruzione, l'1,3% in meno rispetto alla media Ocse (6,1%). Il nostro Paese ha un tasso di laureati del 14% nella popolazione compresa tra il 25 e i 64 anni, tra i più bassi dei Paesi Ocse (solo Turchia e Brasile ne hanno meno). Quel che è peggio è che la quota di iscritti a facoltà scientifiche e ad ingegneria è ancora più bassa: in Italia non raggiunge il 24%, rispetto al 35,6% della Finlandia, al 33,4% della Germania, al 34,9% della Corea e al 26% della Francia. Il deficit è aggravato da un corrispondente eccesso di offerta sul lato dei percorsi formativi umanistici.
Questo gap formativo si ripercuote anche sul settore del turismo, che è strumentale a una valorizzazione in termini economico-industriali del nostro immenso patrimonio culturale. In ambito turistico solo il 17% degli operatori possiede una formazione di livello superiore o universitario, contro il 35% dei nostri principali competitor europei.

Questo è un elemento di assoluta rilevanza, considerato che per un rilancio dell'economia italiana la sfida del turismo, e soprattutto di quello culturale, è decisiva. Mentre - infatti - è molto aggressiva la concorrenza esercitata sul segmento balneare da destinazioni alternative, sia nel Mediterraneo che fuori dall'Europa, il turismo culturale è, e deve sempre più divenire, una nostra, specifica prerogativa. Vale la pena ricordare che anche il turismo culturale è nato in Italia, con la tradizione dei grand tour sei-ottocenteschi di cui Goethe ci ha lasciato memorabile traccia. La valorizzazione del patrimonio italiano necessita però di professionalità specifiche, di addetti con qualificazione elevata a tutti i livelli.

Non possiamo limitarci a vivere di rendita, pensando di continuare ad attingere ad un "giacimento" inesauribile. Quel tipo di approccio ha già mostrato tutti i suoi limiti e i suoi effetti distorsivi, anche in termini di stagionalità ed eccessiva concentrazione dei flussi del grande turismo in pochi luoghi, con la conseguente esclusione di molte aree ad elevato potenziale. Uno spreco ed una mortificazione delle nostre risorse che non possiamo più permetterci. Le cifre indicano chiaramente quale sia l'attrattiva del fattore artistico-culturale, che con 35 milioni di arrivi nel 2010 ha pesato per oltre il 35% del totale e una variazione positiva del 5,7% rispetto all'anno precedente. I margini di miglioramento sono comunque enormi se, come ha ricordato Roberto Cecchi su queste pagine, la metà dei 37 milioni di visitatori annui entra in solo 8 dei 424 musei statali italiani e se rammentiamo come il fatturato del turismo mondiale sia raddoppiato tra il 2000 e il 2010 e sia destinato a raddoppiare ancora nei prossimi dieci anni. Intercettare questo flusso, anche a quota di mercato costante, comporterà effetti importanti sul Pil e l'occupazione.

Compito del ministero del Turismo, delle Regioni e degli altri enti competenti e interessati è anche di evitare che questi giganteschi flussi umani (nel 2012 si calcola che i turisti nel mondo supereranno il miliardo di unità) insistano nei "soliti" siti, soffocandoli, e che - al contrario - si diffondano sul tutto il territorio nazionale che in tal modo potrà valorizzare i suoi tesori, molti dei quali oggi sono nascosti o semi-sconosciuti.
Piero Gnudi è ministro degli Affari regionali, sport e turismo

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi