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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 14:52.

Uno degli aspetti più importanti della primavera araba è il fatto di aver ridefinito i principi di politica estera prevalenti fino a questo momento. Gli Usa, mentre da un lato stanno ritirandosi da Iraq e Afghanistan, missioni intraprese (anche se fra contestazioni) in nome della sicurezza nazionale, dall'altro stanno intervenendo in altri Stati dell'area (anche se con forti incertezze) in nome dell'ingerenza umanitaria. La ricostruzione democratica diventerà il nuovo principio della politica mediorientale, soppiantando l'interesse nazionale? Ma è questo che rappresenta la primavera araba, una ricostruzione democratica? L'opinione che si va imponendo è che gli Usa hanno l'obbligo di schierarsi con i movimenti rivoluzionari mediorientali.

Uno schierarsi come forma di compensazione per le politiche della guerra fredda (invariabilmente definite come "malaccorte"), quando collaborava per ragioni di sicurezza con Governi non democratici della regione. Inoltre, è la tesi, sostenere Governi fragili in nome della stabilità internazionale sul lungo termine ha generato instabilità. È vero che alcune delle politiche portate avanti nella guerra fredda hanno continuato a essere applicate anche quando non erano più utili, ma la guerra fredda ha retto per trent'anni e ha determinato trasformazioni fondamentali, come l'abbandono dell'alleanza con l'Urss da parte dell'Egitto e la firma degli accordi di Camp David. Il modello che emerge ora, se non riuscirà a stabilire un rapporto adeguato con gli scopi che proclama, rischia di essere instabile fin dall'inizio, con il rischio di travolgere i valori di cui si fa portatore.

La primavera araba è presentata come una rivoluzione regionale, guidata dai giovani e in nome della democrazia liberale. Ma la Libia non è governata da forze di questo genere, anzi fa fatica a rimanere in piedi come Stato. Lo stesso vale per l'Egitto, dove la maggioranza elettorale è islamista; e anche nell'opposizione siriana non sembra che i democratici prevalgano. Dietro al consenso dei Paesi della Lega araba sulla questione siriana c'è l'azione di Paesi che in passato non si sono distinti per la democrazia: c'è semmai, in larga parte, il conflitto tra sciiti e sunniti e il tentativo di ristabilire il predominio sunnita ai danni della minoranza sciita che oggi ha il potere a Damasco; per questo molti gruppi minoritari (drusi, curdi e cristiani) non vedono di buon occhio un cambio di regime.
La confluenza di tanti risentimenti non costituisce un esito democratico. Con la vittoria arriva la necessità di distillare un'evoluzione democratica e istituire un nuovo locus di autorità. Più è stata totale la distruzione dell'ordine esistente, più complicato si rivelerà istituire un'autorità nazionale, e più diventerà probabile il ricorso alla forza per imporre un'ideologia universale. E più la società diventerà frammentata, più forte sarà la tentazione di incoraggiare l'unità attraverso il ricorso a una visione nazional-islamista, che prende di mira i valori occidentali o gli obiettivi sociali.

Il rovesciamento dell'ordine esistente è un biglietto d'accesso a un processo devastante. Il rischio è che le rivoluzioni si trasformino, per il mondo esterno, in un'esperienza telematica transitoria, seguita durante pochi momenti chiave e poi oscurata una volta che l'evento è concluso. Una rivoluzione va giudicata dal suo punto di arrivo, non dal suo punto di partenza.

Le questioni umanitarie non devono far venire meno la necessità di legare l'interesse nazionale a una concezione di ordine mondiale. Per gli Usa, una dottrina di intervento umanitario nelle rivoluzioni mediorientali si dimostrerà insostenibile se non sarà collegata a un'idea di sicurezza nazionale dell'America. L'intervento deve tenere conto della rilevanza strategica e della coesione sociale di un Paese e valutare che cosa prenderà il posto del vecchio regime.

Se la primavera araba finirà per accrescere la sfera della libertà individuale, o se finirà per sostituire un autoritarismo feudale con un nuovo assolutismo basato su plebisciti ad hoc e maggioranze permanenti su base confessionale, non si può scoprire guardando i proclami iniziali dei rivoluzionari. Le forze politiche fondamentaliste tradizionali, rafforzate dall'alleanza con i rivoluzionari radicali, minacciano di prendere il controllo del processo, marginalizzando gli elementi dei social network protagonisti della prima fase.

L'America dovrebbe incoraggiare le aspirazioni della regione al cambiamento. Ma non è saggio cercare un risultato equivalente in ogni Paese allo stesso ritmo. L'America servirà più efficacemente i propri valori, dando consigli dietro le quinte piuttosto che diffondendo dichiarazioni pubbliche, che rischiano di provocare un sentimento di assedio. Non è abdicare ai principi adattare la posizione americana a seconda dei diversi Paesi e calibrarla su altri fattori rilevanti, tra cui la sicurezza nazionale; al contrario, è l'essenza di una politica estera creativa.

Per oltre mezzo secolo, la politica americana in Medio Oriente è stata guidata da obiettivi di sicurezza: impedire che emergesse una potenza egemone, garantire il libero flusso delle risorse energetiche e negoziare una pace duratura fra Israele e i vicini, palestinesi inclusi. Nell'ultimo decennio l'Iran è emerso come l'ostacolo a tutti e tre questi obbiettivi. La primavera araba non ha cancellato questi interessi, anzi ha reso più urgente tradurli in pratica. Un processo che dovesse concludersi con Governi troppo deboli o di orientamento troppo antioccidentale per dare il loro sostegno a esiti di questo genere, e dove la collaborazione americana non sarebbe più accolta con favore, deve suscitare timori a Washington, indipendentemente dai meccanismi elettorali con cui questi Governi sono arrivati al potere. In questi limiti generali, la politica americana ha margini di creatività per promuovere i valori umanitari e democratici.

Gli Stati Uniti devono essere preparati a trattare con Governi islamisti democraticamente eletti, ma devono essere anche liberi di perseguire un principio standard della politica estera tradizionale, condizionando il loro atteggiamento alla compatibilità delle azioni del Governo in questione con i propri interessi.

Il comportamento degli Usa finora è stato efficace: ha evitato che l'America diventasse un ostacolo alle trasformazioni. La politica degli Usa sarà giudicata un successo solo se quanto emergerà dalla primavera araba servirà a rendere i nuovi Stati più responsabili verso l'ordine internazionale e le istituzioni umanitarie.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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