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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 15 luglio 2014 alle ore 09:03.

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La povertà ha messo radici in Italia. Durante la crisi i poveri assoluti sono passati da 2,4 a 6 milioni e sempre più li si ritrova anche in quelle parti della società che eravamo abituati a considerare invulnerabili. I precedenti Esecutivi, però, se ne sono tenacemente disinteressati. Si aspetta ora di conoscere la posizione del Governo Renzi.

Povertà vecchia e nuova . I dati dell'Istat, presentati ieri, mostrano che, mentre nel 2007 la povertà assoluta toccava il 4,1% delle persone, nel 2013 è arrivata al 9,9%. Attenzione, non si tratta di quell'impoverimento che riguarda una parte ben più ampia della popolazione, costringendola a rinunciare ad alcuni consumi desiderati (come apparecchi tecnologici o la possibilità di andare fuori città in estate) senza però impedirle la fruizione dei beni e dei servizi essenziali. La povertà assoluta, invece, è l'impossibilità di raggiungere uno standard di vita minimamente accettabile perché non si è in grado di sostenere la spesa necessaria per livelli nutrizionali adeguati, un'abitazione dotata dei servizi indispensabili, potersi vestire decentemente, muoversi nel territorio e così via.

Nel 2007 questo flagello si concentrava nel Sud, tra gli anziani, tra le famiglie senza lavoratori e tra chi ha almeno tre figli. Negli ultimi anni, oltre a un'ulteriore diffusione tra i gruppi menzionati, ha conosciuto una netta espansione in segmenti del nostro Paese prima solo marginalmente toccati: il Nord, le famiglie giovani, i nuclei con lavoratori e quelli con due figli. L'auspicata ripresa economica potrà - nel prossimo futuro - ridurre il tasso di povertà ma non farlo tornare ai livelli pre-crisi, a causa dell'indebolimento strutturale del contesto italiano.

Una pesante eredità. La Caritas ha recentemente presentato il proprio Rapporto sulle politiche contro la povertà in Italia, coordinato da chi scrive. Vi si sottolinea come sia possibile comprendere quanto accaduto durante la crisi solo partendo dal lascito del passato, quello di un Paese dove nessun Governo ha mai costruito politiche contro l'esclusione sociale degne di questo nome. Già nel 2007, eravamo, insieme alla Grecia, gli unici in Europa senza la necessaria misura nazionale rivolta a tutte le famiglie in povertà assoluta. Le risposte venivano delegate ai Comuni, fin da allora dotati di ridotti finanziamenti, e al Terzo Settore. Non stupisce, pertanto, che la spesa pubblica dedicata fosse inferiore del 75% alla media europea.

Il welfare durante la crisi. Dal 2008 ad oggi non hanno visto la luce sostegni economici capaci di migliorare in modo significativo le condizioni delle famiglie povere. Il Governo Berlusconi ha introdotto la Social Card, 40 euro mensili rivolti a nuclei indigenti con un bambino entro i 3 anni o un anziano con più di 65. Il suo impatto è stato marginale, per l'esiguità dell'importo e il ridotto numero di utenti (535mila). Il recente bonus di 80 euro mensili, d'altra parte, è indirizzato ai lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi ma non ai poveri; ne raggiungerà comunque circa il 20%, ma con un importo medio per loro ben inferiore. L'impatto sarà, ancora una volta, trascurabile.

In assenza di altre risposte, l'accresciuta domanda di aiuti si è riversata sui servizi sociali dei Comuni. Negli anni scorsi, però, lo Stato ha diminuito drasticamente i loro stanziamenti, nei trasferimenti indistinti così come nei fondi nazionali finalizzati. Basti notare che questi ultimi sono stati ridotti dal Governo Berlusconi del 91% tra il 2008 e il 2012, decisioni confermate da Monti, per poi risalire leggermente con Letta. Anche così, comunque, il calo registrato dal 2008 al 2014 è del 62%.

Il precedente Esecutivo ha, inoltre, predisposto alcune sperimentazioni locali a durata limitata e utenza circoscritta; la più nota riguarda la Nuova Social Card nei 12 maggiori Comuni italiani. Le sperimentazioni serviranno se le indicazioni che ne stanno emergendo verranno impiegate nella costruzione del necessario Piano nazionale contro la povertà. Altrimenti si aggiungeranno al già lungo elenco di "primi segni di attenzione", poi abbandonati, che hanno sinora segnato le politiche di contrasto all'esclusione sociale in Italia.
In sintesi, il welfare italiano si è presentato all'inizio della crisi decisamente carente nelle risposte alla povertà. E mentre quest'ultima cresceva freneticamente, le politiche pubbliche venivano ulteriormente indebolite.

Un Piano nazionale contro la povertà. I tratti della necessaria misura nazionale - il Reddito d'inclusione sociale (Reis) - sono condivisi da tutti gli esperti e riflettono quelle esistenti negli altri Paesi. Ogni famiglia in povertà assoluta riceve un contributo economico, pari alla differenza tra il proprio reddito e la soglia di povertà. Gli interessati fruiscono, inoltre, dei servizi - sociali, educativi, per l'impiego - utili a costruire nuove competenze e/o ad organizzare diversamente la propria esistenza, forniti da Comuni, Terzo Settore e altri soggetti del territorio. S'introduce così un diritto nazionale e gli si dà sostanza attraverso il forte coinvolgimento delle comunità locali. Parallelamente, vengono coniugati i diritti di cittadinanza (usufruire del Reis) e i doveri verso la collettività (gli utenti devono impegnarsi per perseguire la propria inclusione sociale e/o lavorativa). Per arrivarci bisogna attivare un Piano nazionale contro la povertà. La parola è al presidente Renzi, che ancora non si è espresso in materia.

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