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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 14:30.
L'ultima modifica è del 17 agosto 2014 alle ore 15:32.

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Enrico Cuccia amava lanciare gli aumenti di capitale più controversi in Agosto. Con la maggior parte degli operatori in località esotiche, i giornalisti sotto l'ombrellone e gli investitori distratti dalle ferie, nessuno seguiva i dettagli delle operazioni. E così Cuccia era in grado di fare (più del solito) quello che voleva. Sarà un caso ma la fusione di Fiat con Chrysler vive il suo momento cruciale proprio a cavallo di Ferragosto.

La tanto annunciata operazione è stata approvata il primo di agosto, con il voto favorevole di più dell'80% dei presenti. Ma la vicenda non è conclusa. Il codice civile dà agli azionisti dissenzienti (o anche solo assenti al voto) il diritto di recedere dalla società, ricevendo un prezzo pari alla media delle quotazioni degli ultimi sei mesi, ovvero 7,727 euro per azione. Solo gli azionisti che possedevano le azioni al primo di agosto, però, possono farlo. Quindi dal primo di agosto il prezzo di Fiat non include più il valore di questa opzione. A complicare le cose, la delibera assembleare di fusione mette come condizione che non recedano azioni per un controvalore superiore ai 500 milioni di euro. Dopo quel livello la fusione salta.
Indipendentemente dal giudizio sul valore della fusione, i cassettisti Fiat si trovano di fronte ad un interessante dilemma. Conviene loro esercitare il diritto di recesso? Da un lato la risposta sembrerebbe banale: fintantoché il prezzo di mercato è inferiore al valore di recesso (come lo era alla chiusura di giovedì), sì; altrimenti no. In realtà è un po' complicata. Se un numero sufficiente di azionisti esercita il diritto di recesso, la fusione salta ed il titolo Fiat potrebbe scendere. Vale la pena di rischiare?

La teoria dei giochi ci dice che, per un piccolo investitore, la risposta banale è quella giusta. Difficilmente un piccolo investitore con le sue azioni può fare pendere la decisione finale da una parte o dall'altra. Pensate veramente che se il numero di azioni per cui viene chiesto il recesso eccede di qualche unità quello massimo una simile operazione verrebbe fatta saltare? No. Quindi il piccolo investitore deve solo considerare due casi. Il caso in cui, indipendentemente dalla sua decisione, il limite massimo non viene raggiunto (e quindi ci guadagna a chiedere il recesso) e il caso in cui, indipendentemente dalla sua decisione, il limite massimo viene superato, e quindi la fusione salta. In questo caso, che lui abbia chiesto il recesso o no, non fa alcuna differenza. Se in un caso guadagno e nell'altro non perdo (se non il costo della raccomandata), esercitare il recesso è la decisione ottimale.
Che la risposta non sia banale lo dimostra la prestigiosa rubrica Lex del Financial Times, che su questo punto si sbaglia. Il 10 di Agosto scriveva che «uno dei fattori da tener presenti per la decisione è se le azioni recupereranno quest'anno». In realtà, la decisione di esercitare il recesso è indipendente dalle aspettative sul titolo. Se un azionista Fiat crede in un recupero del titolo Fiat dopo il 20 di agosto, quello che dovrebbe fare è contemporaneamente esercitare il diritto di recesso e comprare in Borsa un numero equivalente di azioni Fiat. In questo modo ha la stessa posizione in titoli, ma guadagna la differenza tra valore di borsa e valore del diritto di recesso. Ci possono essere dei costi se l'investitore deve pagare un'imposta sui capital gain. Ma se la differenza tra corso del titolo e prezzo di recesso è sufficientemente ampia, anche questa considerazione svanisce.

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