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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:10.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2014 alle ore 10:56.

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(Corbis)(Corbis)

«Non mi interessa l'immagine della giustizia ma la giustizia». È la battuta che Claude Chabrol fa pronunciare, almeno un paio di volte, a Isabelle Huppert nel film L'ivresse du pouvoir (Francia 2006), in italiano La commedia del potere, ispirato a un noto caso di cronaca giudiziaria francese degli anni 90. La Huppert interpreta Eva Joly, un magistrato rigoroso, ai limiti del fanatismo, alle prese con una grossa indagine di corruzione che coinvolge politica, finanza, magistratura, circondata da figure prive del senso della giustizia e di principi morali.

Non ultimo il Procuratore capo, che cede alle pressioni provenienti dall'alto e cerca di arginare la Huppert/Joly prima con una vacanza, poi con promozioni fittizie e infine affiancandole una collaboratrice, nella convinzione che «le donne tra loro si massacrano» (previsione che si rivelerà sbagliata). È proprio lui, il Procuratore, che invita Huppert/Joly a farsi carico dell'«immagine della giustizia» ed è a lui che lei risponde: «Non mi interessa l'immagine della giustizia ma la giustizia». Frase dai molteplici significati. Ma che descrive un dato di fatto: la distanza tra la giustizia e la sua immagine, tra la realtà e la rappresentazione (o percezione) della realtà. Un gap che va colmato anche facendosi carico dell'aspettativa dei cittadini a una giustizia comprensibile e trasparente.

Non è solo affare dei media ma anche, e soprattutto, dei magistrati. «Comunicare la giustizia» - che è funzione, potere, servizio, istituzione - è un passaggio essenziale per ridurre la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione o percezione. Non importa se la prima sia migliore o peggiore della seconda o se riscuota o meno il consenso popolare; importa piuttosto che il cittadino non si senta, rispetto a questo mondo, uno «straniero», come il Meursault dell'omonimo libro di Albert Camus, e sia in grado di formarsi un'opinione - se del caso anche critica - il più possibile «informata».
La Scuola della magistratura è ormai consapevole di quanto sia cruciale il tema della «comunicazione giudiziaria», al quale dedica grande attenzione, sulla scia di quanto aveva cominciato a fare il Csm dal 2009.

La giustizia è infatti uno dei pilastri delle democrazie ed è quindi è essenziale che non susciti diffidenza, disorientamento, estraneità ma possibilmente fiducia. E la fiducia ha come presupposto la chiarezza, la trasparenza, la comprensione. Ridurre la distanza tra giustizia e immagine della giustizia significa quindi contribuire a creare un rapporto di fiducia indispensabile alla vita democratica di un Paese.
D'altra parte, la giustizia è per sua natura soggetta al controllo sociale tant'è che una serie di passaggi sono pubblici per definizione, come il dibattimento o la motivazione della sentenza. Ma il dovere di comunicare riguarda ormai anche le indagini, il servizio, l'organizzazione, i contrasti che spesso insorgono tra e negli uffici. E, come dimostra la cronaca, anche il "verdetto", soprattutto nei casi complessi e di rilevanza pubblica.

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