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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:10.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2014 alle ore 10:56.

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(Corbis)(Corbis)

Il controllo sociale, contrappeso all'indipendenza e all'autonomia della magistratura, non può essere ignorato o minimizzato, facendo della giustizia un corpaccione "in difesa", chiuso e autoreferenziale, che parla un linguaggio specialistico da addetti ai lavori, cioè per pochi intimi.
La giustizia deve saper parlare al cittadino, che è cosa diversa dal rincorrere il consenso popolare o un'immagine mediatica, magari funzionale alla costruzione di carriere parallele. Avere la consapevolezza del controllo sociale significa saper declinare in ogni momento il principio di responsabilità, in cui è compreso anche il "dovere di comunicazione". Tanto più quando la decisione è impopolare o rischia di essere percepita così. O quando, ad esempio, non coincide con le aspettative create dalla giustizia mediatica.

Paradossalmente, se nella fase delle indagini sta prendendo sempre più piede la consapevolezza del dovere di comunicare (compatibilmente con il dovere del riserbo e la segretezza delle indagini) e sebbene la Cassazione (in occasione del caso Fiorillo) abbia sottolineato l'esigenza di una "comunicazione giudiziaria" che tenga conto anche della velocità dell'informazione mediatica, è nella fase del processo di merito che si registrano le maggiori carenze informative e resistenze alla comunicazione. Eppure, la cronaca non si stanca di dimostrare la necessità di un cambiamento.

L'ultimo caso risale al 18 luglio: il processo Ruby. Il verdetto di assoluzione piena di Silvio Berlusconi ha suscitato disorientamento nell'opinione pubblica, che in base al solo dispositivo non ha compreso le ragioni - di fatto o di diritto - di quella decisione. Né d'altra parte hanno contribuito a fare chiarezza i "tecnici" (magistrati, avvocati, giuristi), avendo sostenuto tutto e il contrario di tutto, e così pure i media. Letture legittime, anche se in contrasto l'una dall'altra. Risultato: una sfiducia dell'opinione pubblica (non priva di strumentalizzazioni) destinata a cristallizzarsi nei 90 giorni di tempo che la Corte d'appello si è legittimamente presa per depositare le motivazioni.

Il 22 luglio, di fronte alla girandola di ricostruzioni, Ezia Maccora, giudice a Bergamo, ex componente del Consiglio superiore della magistratura e membro del direttivo dell'Associazione nazionale magistrati, ha scritto ai colleghi iscritti alla mailing list delle toghe un messaggio per invitarli a riflettere sull'opportunità che il giudice, contestualmente al dispositivo, «adotti almeno un'informazione provvisoria». «Da tempo - si legge in quella mail - la Corte costituzionale e la Cassazione, all'esito delle decisioni più rilevanti, provvedono a emettere un'"informazione provvisoria" per facilitare la comprensione del percorso logico e giuridico, e quindi delle ragioni che le hanno portate a quelle decisioni. Un metodo che sarebbe opportuno venisse adottato anche dai dirigenti degli uffici giudiziari per le decisioni più rilevanti, onde evitare che nel periodo che intercorre tra la lettura del dispositivo e il deposito della motivazione, l'opinione pubblica sia disorientata e si formi un convincimento sulla base delle possibili e diverse "letture" veicolate dai mezzi d'informazione.

Convincimento che potrebbe rivelarsi errato dopo la lettura delle motivazioni, ma che difficilmente potrà essere rimosso a posteriori se si considerano i tempi e le modalità della nostra informazione. Basta infatti leggere i maggiori quotidiani per comprendere come già oggi, dopo qualche giorno dalla decisione della sentenza della Corte d'Appello di Milano, le opinioni di giuristi, commentatori, giornalisti esperti siano le più diversificate proprio perché rese "al buio" e soltanto sulla base di un mero dispositivo. Senza parlare della difficoltà che i cittadini inevitabilmente incontrano nella comprensione di una decisione che sembra coinvolgere indiscutibili aspetti tecnici.

Le (poche) risposte sono state laconiche o negative: c'è chi sottolinea la diversa natura del giudizio di legittimità e di costituzionalità da quello di merito, chi propone di eliminare il dispositivo rinviando tutto al deposito della sentenza perché «strada facendo il giudice può cambiare idea», chi attribuisce la "colpa" del disorientamento ai media, chi ricorda che i giudici «parlano solo con le sentenze» e chi considera problematico affidare un comunicato agli stessi giudici.
Maccora - che al Csm fu tra gli organizzatori dei corsi di formazione per dirigenti degli uffici giudiziari, dove il tema della comunicazione era centrale - è convinta che la "sfida della comunicazione" sia insuperabile. «Comprendo la difficoltà culturale dei magistrati rispetto a questa nuova sfida, legata alla differenza dei tempi processuali da quelli dell'informazione, ma i magistrati comprenderanno che è una sfida da affrontare per rendere la giustizia più comprensibile ai cittadini. Dobbiamo farci carico di rendere le nostre decisioni comprensibili fin dal momento in cui le adottiamo, poiché quello è il momento cruciale per la comunicazione».

Uno sforzo in tal senso è stato fatto, appunto, dalla Cassazione e dalla Consulta. La prima, attraverso le cosiddette "informazioni provvisorie" del principio di diritto applicato nel processo, pubblicate on line affinché orientino i magistrati - di Cassazione e di merito - nelle loro decisioni, senza dover aspettare le motivazioni. La seconda, con i comunicati stampa che spesso, ormai, accompagnano le decisioni più delicate e di interesse generale. Ed è forse quest'ultimo il modello da seguire. La Cassazione, infatti, non si rivolge all'esterno con la sua "informazione provvisoria" ma solo ai magistrati; la Consulta, invece, si rivolge a tutti, magistrati e non. «Il giudice di merito - osserva Maccora - ha solo l'esigenza di far comprendere la propria decisione all'esterno. Non farlo subito significa lasciare il cittadino in balia di informazioni altrui, non sempre corrette. La sfida, dunque, è che i magistrati acquisiscano la consapevolezza della necessità di questi nuovi strumenti. Bisognerà trovare le forme più opportune, da studiare. Ma è anzitutto fondamentale la consapevolezza».

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