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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2014 alle ore 07:39.
L'ultima modifica è del 02 settembre 2014 alle ore 11:15.
Le retribuzioni dei Ceo delle maggiori società quotate negli Stati Uniti, quelle che compongono l'indice S&P 500, sono oltre 200 volte superiori, in media, a quelle dei loro dipendenti (rilevazione Bloomberg). Ron Johnson, dei grandi magazzini JC Penny guadagna quasi 1.800 volte la media dei suoi dipendenti.
Negli anni '50 il rapporto retributivo top manager-dipendenti era pari a 20 (mentre Adriano Olivetti esortava a non superare il decuplo), nel 1980 era salito a 42, nel 2000 a 120 e nel 2009 a 170. Numeri impressionanti, all'estero come in Italia.
Questa polarizzazione delle retribuzioni è un fenomeno sempre ingiusto, eticamente riprovevole e da condannare, oppure rivela - al di là dei casi ingiustificati e talvolta illeciti - una tendenza generale, un cambiamento profondo dell'economia mondiale? Credo che il fenomeno abbia una spiegazione economica razionale.
La pentola del divario nelle retribuzioni è stata scoperchiata dalle due grandi crisi di questi anni, quella finanziaria e quella economica. La Sec, l'organo di vigilanza delle società quotate, ha reso più stringenti i criteri di trasparenza sulle retribuzioni. E aumentano i capi azienda che si iscrivono al cosiddetto "one-dollar Ceo club", sulle orme di Larry Ellison di Oracle, Larry Page e Sergey Brin di Google, Mark Zuckerberg di Facebook, Meg Whitman di Hewlett Packard: si sono ridotti lo stipendio a un dollaro l'anno, ma quasi sempre si tratta di manager-azionisti delle loro imprese.
Il Parlamento europeo è favorevole a limitare i bonus dei banchieri; Hollande ha annunciato tetti salariali per manager di aziende pubbliche e dirigenti della Pa, sulla scia dell'Italia che ha posto come limite l'indennità spettante al presidente della Repubblica (ad eccezione delle quotate controllate dal Tesoro). Politici e regolatori, sull'onda di una protesta diffusa, puntano il dito indistintamente contro tutti i top manager dagli stipendi elevati.
La forbice retributiva (che talvolta sfocia nel malaffare) è discutibile, sul piano etico ed economico, quando i compensi dei top manager non trovano riscontro nei risultati conseguiti e neppure nella loro quotazione sul mercato del lavoro. Le anomalie italiane si inseriscono in questo scenario. Le retribuzioni elevate dei manager pubblici hanno finora riguardato tutte le posizioni apicali: dalle multinazionali partecipate dal Tesoro, alle municipalizzate (molte delle quali inefficienti e in perdita); dai dirigenti dei ministeri a quelli di regioni e aziende sanitarie. Compensi quasi mai collegati alla complessità delle funzioni, alla qualità delle competenze, ai livelli di rischio e di responsabilità, ai risultati. Come se tutti lavorassero in mercati competitivi, e fosse effettivo il rischio di perdere il management a favore di altri concorrenti.
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