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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2014 alle ore 06:46.
L'ultima modifica è del 25 settembre 2014 alle ore 07:13.

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La nuova razionalità economica è costituita dalla valorizzazione delle differenze. La standardizzazione dei processi e l'allineamento pseudo-matematizzante che hanno caratterizzato l'industria internazionale negli ultimi due secoli non ci sono più. La rigidità nella gestione del personale e nell'orientamento delle imprese al mercato, che ha caratterizzato un'economia imbevuta di fordismo e di taylorismo e convinta che le economie di scala potessero essere perseguite solo attraverso il meccanicismo tecnocratico, ha ceduto il passo a una forma più avanzata - elastica e morbida, sinuosa e resiliente - di corporate identity fondata sul binomio «inclusione e innovazione».
Andrea Notarnicola è un sociologo del lavoro che all'attività di ricerca affianca la quotidianità da consulente nelle imprese. Fra poche settimane uscirà, per i tipi di Franco Angeli, un suo saggio dal titolo Global Inclusion, che avrà anche una versione in inglese, pubblicata in e-book. «Il nuovo paradigma fondato sulla global inclusion - riflette Notarnicola - rappresenta l'evoluzione delle politiche per le pari opportunità, basate sulle quote rosa, e della responsabilità sociale di impresa. È un approccio complessivo: un orientamento globale che porta ogni azienda, al suo interno e al suo esterno, a considerare le ragioni della diversità come la nuova, fondamentale, leva competitiva».

Questa impostazione prova, dunque, a unire filosofia e prassi in una miscela sempre più omogenea di etica e convenienza economica. Differenze di genere. Di orientamento sessuale. Di credo religioso. Di appartenenza etnica. Di condizione sociale di partenza. Perfino di età. Nella sua varietà composita, ogni impresa è un piccolo (o grande) universo. Che funziona meglio se adotta criteri espliciti di inclusione e innovazione. Lo dimostra una ricerca di Catalyst, secondo cui negli ultimi dieci anni le 50 imprese globali statunitensi - punti di riferimento nella gestione delle diversità - hanno ottenuto risultati - in termini di andamento del titolo - più alti del 22% rispetto all'indice Dow Jones Industrial Average e del 28% rispetto al Nasdaq. McKinsey ha allargato il campione, costruendo un insieme di imprese americane, inglesi, francesi e tedesche. La società di consulenza strategica ha rilevato gli effetti di alcuni specifici provvedimenti: le società che hanno board composti in maniera robusta anche da donne valgono - in termini di efficienza rilevata contabilmente dal Roe e dalla crescita - un quarto in più rispetto alle altre. Ma, soprattutto, ha constatato il miglioramento della fisiologia interna delle aziende che adottano in generale policy di inclusione, in cui le quote rose sono una parte (non l'unica): secondo McKinsey una forza lavoro diversificata e inclusiva genera risultati superiori per livello di collaborazione nel lavoro in team (+57% rispetto allo standard), nella produttività dei singoli (+12%) e nella capacità di costruire un rapporto solido e duraturo con la clientela (+19%).

«L'elemento interessante - nota Notarnicola - è la verifica empirica di quanta innovazione venga prodotta dall'inclusione. Con la scelta di politiche di questo tipo, l'intero profilo dell'impresa si orienta diversamente». Secondo una ricerca dello European Business Test Panel effettuata su 188 aziende continentali che hanno una agenda di diversity, tutte le funzioni vengono valorizzate: gli imprenditori e i manager consultati hanno evidenziato miglioramenti delle performance per il reclutamento nel 61% dei casi, per il servizio clienti nel 58%, per lo sviluppo dei nuovi prodotti nel 49%, per la formazione nel 45%, per l'ingresso nei nuovi mercato nel 42%, per i processi manageriali nel 40% e per il coinvolgimento degli stakeholder nel 30 per cento.
La quotidianità e la strategia vengono modellate dal binomio inclusione-innovazione. Fra queste imprese, nell'82,1% dei casi una policy votata alla global inclusion ha offerto molteplici prospettive sulle operations; nel 92,9% è servito a comprendere nuovi mercati e nuovi clienti; nell'89,3% a generare nuove idee; nel 67,9% a generare efficienze organizzative e nel 60,7% per ottenere, alla fine, più profitti.

La progressiva evoluzione verso un crescente livello di eterogeneità ed inclusione - un trend che in Italia si sta poco alla volta diffondendo - è una operazione sia culturale che strategica. «Negli ultimi cinque anni - spiega Mariapaola Vetrucci, chief strategy officer di Barilla - le donne in ruoli dirigenziali sono passate dal 7 al 14 per cento. All'estero siamo già al 20 per cento. La valorizzazione dell'elemento femminile è, però, soltanto uno degli elementi di una visione più complessiva». L'azienda, che peraltro ha allacciato una partnership con Catalyst, a Human Rights Campaign e a Parks, ha formato un Diversity & Inclusion Board costituito da un Advisory Board di esperti esterni indipendenti e da un Operating Committee interno. Barilla sta costruendo uno stile di leadership basato su competenze e percorsi differenti. «È utile - aggiunge Vetrucci, che è a diretto riporto dell'amministratore delegato Claudio Colzani - avere gruppi di lavoro disomogenei all'interno di una cultura inclusiva». In questa maniera si costruisce un occhio collettivo sofisticato, che si posa su un mondo in continua evoluzione. «La metà del nostro personale - chiosa Vetrucci - è all'estero. Noi siamo una multinazionale. La multiculturalità è un valore indispensabile, per chi come noi serve consumatori in tutto il mondo». Dice Colzani: «Promuovere diversità e inclusione non significa solo "fare la cosa giusta", ma anche sostenere la nostra strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura inclusiva accrescono l'impegno e tengono conto di una comprensione più profonda della società per chi come noi serve consumatori in tutto il mondo».

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