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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2014 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 15 dicembre 2014 alle ore 08:22.

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È stato l’attore che gli italiani del Novecento hanno amato di più, il meno legato a una o due specifiche generazioni di spettatori come invece è accaduto ad altri, pur grandi e grandissimi: la Magnani e Fabrizi, la Valli e Nazzari, Sordi e Mastroianni, la Mangano e la Loren, Gassman e Tognazzi…

Essi non vennero uccisi, nel riconoscimento del pubblico più vasto e popolare, dalla modernità, non ne furono un prodotto, ma seppero egregiamente adattarvisi o lasciarsene adattare, e però la post-modernità (gli anni che sarà bene chiamare in futuro berlusconiani e accessoriamente, confusi al loro interno, veltroniani) li mise tutti al tappeto, perché finiva un’identità culturale nazionale con le sue radici e con la sua storia, con i suoi contadini, artigiani, impiegati, operai, con i suoi modelli famigliari culturali sociali, con le sue differenze (“le 100 città”) e con le sue somiglianze, con la sua faticata Unità sottoposta alla prova delle trasformazioni e delle reazioni più veloci.

Il tentativo di una monocultura di marca televisiva sembrò, pasolinianamente, affermarsi, ma ci accorgiamo oggi che fu di copertura e che alcune radici resistevano egregiamente all’omologazione, anche se non sempre si trattava delle radici migliori, quelle di cui vantarsi.

Di tutti i divi citati, Totò fu il più longevo nell’amore del pubblico e seppe piacere agli italiani poveri e meno poveri di quasi un secolo, attraversando il primo dopoguerra e il fascismo, la guerra e il secondo dopoguerra, la ricostruzione e il miracolo economico, il ’68 e, post mortem, il ’77, spingendosi fino alla fine del secolo con intatta presa, con rinnovata capacità di divertire e di sbalordire.

Cresciuto nella patria delle atellane e dei Pulcinella, dei dintorni e dei vicoli della grande città borbonica dove la cultura più solida era quella degli analfabeti, fatta di recita e di musica, forme espressive che non hanno bisogno di venir scritte né di diplomi e di lauree, Totò diceva di aver avuto come maestre la fame e la curiosità. Fu in teatro, ma spesso anche nel cinema, un “mamo”, lo stordito, l’ingenuo, il nuovo al mondo, il Tarzan arrivato dalla giungla, l’Aligi che si sveglia nella Roma dell’occupazione nazista, il Pinocchio plasmato nel legno da qualche Geppetto, la marionetta disarticolata e metafisica, ribelle finanche all’ordine della natura e che anche per questo, non conoscendo del mondo gli usi e i costumi e le leggi di gravità, diventa un disturbatore della quiete, un rompiscatole aggressivo che non sa tenere a freno la sua carica vitale, i suoi istinti. È una forza della tradizione, e una riserva e una miniera del più antico artigianato teatrale, che si adatta alle situazioni allo stesso modo di Pulcinella, e come lui (e come i comici più grandi) è figura unica e riconoscibile, ma di tante trasformazioni, fa mille mestieri, è sottoproletario e proletario e finanche piccolo borghese, insicuro della propria condizione, uno che non sa bene chi è ed è per questo che si distingue per un ossessivo “Lei non sa chi sono io!”

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