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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2014 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 15 dicembre 2014 alle ore 08:22.

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Non ho conosciuto Totò – per mia colpa: avevo un appuntamento per intervistarlo, ma preferii correre a una delle prime manifestazioni italiane contro la guerra del Vietnam e lui non volle rinnovarmelo – e l’ho visto solo da lontano e solo una volta, mentre girava in una notte romana dalle parti di Campo de’ fiori una scena di “Risate di gioia” insieme alla Magnani, ma ho interrogato sulla sua arte diversi dei suoi registi, sceneggiatori, colleghi: tra gli altri, Mario Monicelli e Mario Mattoli, Isa Barzizza e Laura Betti, Age e Scarpelli, Pasolini e Ninetto Davoli, e Franca Faldini, sua compagna per tanti anni. E tutti hanno insistito sulla sua doppia natura di principe e di povero, sul suo “lei non sa chi sono io” e sulla trascinante vis comica per cui l’attore, anzi il guitto, il comico, prendeva il sopravvento non appena le luci della ribalta o quelle degli studi cinematografici si accendevano, non appena il sipario si alzava o il ciacchista annunciava una ripresa.

Monicelli si pentiva di non aver dato abbastanza spazio al Totò-marionetta e di aver voluto convertirlo al neorealismo, in particolare con “Guardie e ladri”. Ma, diceva, Totò restava il più forte.

L’ho amato sin da bambino, anche perché lo amavano gli adulti che mi circondavano, proletari e semi-analfabeti, e ho scritto di lui quando i critici con la puzza al naso ne vituperavano la “volgarità”, irritati dal suo successo, dall’amore che gli portavano masse di persone. Ho visto come il suo pubblico cambiava e come continuava a riconoscerlo, anche in tv, quando non era più una forza della natura, ma - diceva Paolo Volponi - una sorta di grillo del focolare, presenza costante e famigliare. Mi sembra assai bello che possa esserci oggi per lui un nuovo pubblico, più vicino, grazie alla crisi e al disordine nuovo di questi anni post-post-moderni, al mondo da cui nacque e che seppe amare e capire.

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