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Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2014 alle ore 07:26.
L'ultima modifica è del 30 dicembre 2014 alle ore 08:40.

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L'industria italiana ha dimostrato in questi anni di dura crisi la sua grande tenuta competitiva sui mercati internazionali ed ha dato un contributo decisivo alle sorti macroeconomiche del Paese grazie all'apporto delle esportazioni.

L'Italia rimane il secondo Paese manifatturiero d'Europa e fra i primi al mondo. In particolare spicca la capacità di mantenere una posizione di leadership in moltissimi segmenti di mercato o filiere di medio-alto contenuto tecnologico e rimaniamo uno dei soli cinque Paesi al mondo con una surplus commerciale positivo (superiore ai 100 miliardi di dollari, dietro solo a Cina, Germania, Giappone e Corea).
Ma nulla è scontato e si stanno già delineando i contorni delle due drammatiche sfide che il sistema manifatturiero dovrà affrontare nei prossimi anni e che decideranno del suo futuro per i prossimi decenni. Da un lato la competizione con i “poli geopolitici” americano e asiatico e dall'altro la capacità di essere fra i protagonisti della quarta rivoluzione industriale: la totale automazione ed interconnessione delle produzioni (la cosiddetta “Industry 4.0”).
L'Europa è ancora l'area economica più rilevante al mondo, ma ha il grande limite di non riuscire a sviluppare politiche comuni che riescano a difendere e a rafforzare la competitività e la capacità di investimento. Questo deficit pesa in particolare sul comparto manifatturiero, su cui tutte le aree geopolitiche mondiali stanno puntando viste le grandi ricadute in termini di aumento della produttività e della capacità di creare posti di lavoro che ad esso si legano.

L'Europa avrebbe dunque bisogno di un vero e proprio “Industrial Compact” che aiuti una rapida ed efficiente reindustrializzazione del Continente (e raggiungere così l'obiettivo del 20% di valore aggiunto industriale dal 15% odierno) e di rafforzare le imprese europee di taglia globale in tutti i settori chiave del futuro, soprattutto in quelli ad alta intensità tecnologica e più innovativi. Il rischio e' quello di perdere la leadership nei settori piu' tradizionali ancora presidiati e di veder relegato il nostro continente ad un ruolo secondario nello scacchiere mondiale, più concentrato com'è a discutere dei diversi interessi nazionali piuttosto che focalizzato a far fronte alla competizione globale e a ridurre il ritardo nello sviluppo di nuove imprese globali nell'high tech.
Purtroppo questo non sta avvenendo e rischieremo di pagare un prezzo molto altro per questa inerzia. Non solo perché sono le imprese altamente innovative e a maggior contenuto di conoscenza le maggiori candidate a creare nuovi posti di lavoro nei prossimi anni. Ma soprattutto perché tutte le grandi aree geopolitiche mondiali (in testa USA e Cina) stanno investendo massicciamente per supportare l'innovazione e la crescita delle proprie industrie ed i piani di ciascun Paese europeo singolarmente non potranno mai competere con le misure e le risorse che stanno mettendo i campi le grandi aree economiche del mondo.

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