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Questo articolo è stato pubblicato il 03 gennaio 2015 alle ore 09:53.

Perché nel mondo dinamico e aperto della competizione globale quel modello è semplicemente sinonimo di un declino lento ma ineluttabile, è lo specchio di una società vecchia che non vuole cambiare troppo, nella pia illusione di riuscire comunque a difendere le proprie rendite di posizione, il proprio generoso welfare pur senza produrre più le risorse necessarie a sostenerli.

La riprova sta negli annunci di tante finte ripartenze, di sterzate che si fermano sempre alle parole, troppo spesso confuse perché i disaccordi regnano sovrani almeno quanto le contrapposizioni di interessi, che si vogliono inconciliabili perché si è perso il senso della politica come arte del compromesso in un'Europa piegata, svuotata da una sfiducia reciproca che si credeva guarita da 60 anni di integrazione e che invece sta riportando indietro gli orologi della storia, verso egoismi e nazionalismi. Verso l'eurofobia.
avvertì' Francois Mitterrand nel 1984 in uno storico discorso a Strasburgo davanti al parlamento europeo. Anche allora erano tempi di euroscetticismo e di eurosclerosi nella piccola Unione dei Nove che con gli anni sarebbe salita a Ventotto. Il campanello di allarme del presidente francese suonò la riscossa: di lì a poco sarebbero arrivati i nuovi Trattati che nel giro di 7 anni posero le basi giuridiche per creare prima il mercato interno senza frontiere e poi la moneta unica.

Tra la piccola Europa di allora e la grande di oggi c'è un abisso di eterogeneità allora persino inconcepibili: il muro di Berlino nel 1984 si credeva eretto per l'eternità. Ma l'incomunicabilità che oggi tormenta i 19 paesi dell'euro e ne perpetua la crisi non nasce dagli allargamenti ma dalle irrisolte contraddizioni dentro il suo nucleo duro, dal dialogo apparentemente sempre più impossibile tra Germania e Francia. Che si riassume, in fondo, in quella crisi delle sovranità nazionali di cui parlava Fischer. La stessa che da anni impedisce il salto dall'unione monetaria a quella economica e politica, il toccasana contro il disastro.: è solare il teorema di Mario Draghi, il presidente della Bce che si appresta a lanciare il quantative easing che comprenda anche l'acquisto di titoli di Stato nella speranza di fermare la deflazione e quindi, in prospettiva, il rischio implosione dell'euro, pur sapendo di attirarsi contro gli strali tedeschi, compresa una pioggia di ricorsi per presunta illegalità delle sue decisioni.

Si fa presto a dire che i patti europei vanno rispettati, che la crescita è il premio delle virtù economiche fatte di conti pubblici sani e sistemi competitivi perché debitamente riformati, che quindi il piano Juncker da 315 miliardi in tre anni per rilanciarla va essenzialmente finanziato da investitori privati (finora più che riluttanti), che la solidarietà non è un esercizio a fondo perduto e la flessibilità delle regole va centellinata per non indurre in errore chi la ottiene.

Sono tutte affermazioni inattaccabili in dottrina e sulla carta. Ma quando si scontrano con la realtà di oggi, con l'economia dell'1% che erode il consenso popolare all'Europa, cioè il sale delle democrazie e del progetto di integrazione europea, diventano molto più fragili, anzi devastanti.

Il 2015 sarà l'anno delle elezioni in Grecia a fine gennaio, in Gran Bretagna in maggio quando si terranno anche le regionali in Spagna, che poi andrà alle urne in novembre. In ottobre sarà il turno del Portogallo. Dovunque i partiti anti-sistema e anti-partiti tradizionali sono in testa, con la sola eccezione di Lisbona dove per ora i socialisti sono dati vincenti. Ma i sentimenti nazionalisti ed euroscettici crescono dovunque: in Irlanda, Francia, Germania, Olanda e Italia, anche se spesso per ragioni tra loro opposte.
Il perché in fondo poco importa. Conta il risultato, che indebolisce i Governi in carica e promette di eleggerne di nuovi poco o comunque meno disponibili ad accettare la disciplina di un'Europa che chiede sacrifici pesanti ma oggi è in grado di redistribuire, nella migliore delle ipotesi, una crescita esile. Incapace di riassorbire la disoccupazione, di dare speranze, la promessa di un futuro migliore.

Ci vorrebbe una svolta drastica, una professione di generosità, coraggio e realismo generali che, all'insegna dei diritti e dei doveri reciproci, invertisse il corso della storia europea come avvenne alla metà degli anni '80. Ci vorrebbe più sovranità in comune per più riforme, più crescita e solidarietà europea nei fatti. Più fiducia nel vicino della porta accanto nonostante una fetta sempre più larga dell'opinione pubblica remi contro chi ci prova. Ci vorrebbe una forte leadership collettiva. La visione solitaria di Draghi non basta.

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