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Questo articolo è stato pubblicato il 04 gennaio 2015 alle ore 13:32.
L'ultima modifica è del 04 gennaio 2015 alle ore 13:42.

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L'inizio del 2015 evoca quello, anteriore esattamente di un secolo, dell'“annus horribilis” che fu il 1915, anno dell'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale, del genocidio armeno, strumentalmente connesso dall'Impero ottomano agli eventi bellici allora in corso, e dell'immane tragedia del terremoto che sconvolse la Marsica e distrusse Avezzano, provocando oltre 30mila vittime.

Tre ricorrenze su cui vale la pena di riflettere per chiedersi se e che cosa esse hanno insegnato o potrebbero ancora insegnare alla nostra coscienza collettiva.
Il conflitto mondiale aveva avuto inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell'Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este, avvenuto un mese prima, il 28 giugno, a Sarajevo, e si concluse oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. La guerra coinvolse le potenze mondiali in due blocchi contrapposti: da una parte gli Imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano) e dall'altra gli Alleati, rappresentati inizialmente da Francia, Regno Unito e Impero russo. La posizione dell'Italia fu al principio di neutralità: poi, la prospettiva dei possibili benefici territoriali connessi al coinvolgimento spinse il governo italiano a decidere l'intervento contro gli Imperi centrali, con cui era precedentemente alleato e che avevano escluso il nostro Paese dai processi decisionali sfociati nel conflitto. Il 24 maggio 1915 fu dichiarata guerra all'Austria-Ungheria. L'idea di una campagna militare breve e facilmente vittoriosa si rivelò del tutto infondata.

A dispetto della superiorità numerica gli Italiani, in ripetuti assalti, conquistarono poco terreno al prezzo di molti caduti. Il conflitto si trasformò presto in una guerra di posizione, del tutto simile a quella che si stava combattendo sul fronte occidentale. Si dovette aspettare la vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto il 30 ottobre 1918 perché l'Impero Austro-Ungarico chiedesse l'armistizio, entrato in vigore il 4 novembre. Il prezzo pagato dai belligeranti in termini di vite umane fu altissimo: oltre 9 milioni di uomini caddero sui campi di battaglia, 7 milioni furono le vittime civili a causa tanto delle operazioni di guerra, quanto delle carestie e delle epidemie che ne seguirono. La tragica lezione, tuttavia, non bastò, come dimostra lo scoppio della seconda guerra mondiale avvenuto a distanza di pochi anni; e quella che Papa Francesco ha chiamato la “terza guerra mondiale”, di fatto già in atto anche se in forma frammentaria e strisciante, sembra dirci che nulla ha insegnato il fiume di sangue versato. La legge della forza preferita alla forza della legge ha prodotto immane devastazione e morte nel cosiddetto “secolo breve” e seguita a produrne oggi. Alla logica dell'uomo contro l'uomo è necessario opporre quella dell'uno per l'altro: senza questo cambiamento radicale di visione il XXI secolo non sarà diverso dal XX. L'urgenza di una profonda e radicale conversione alla ricerca sincera della pace emerge qui in tutta la sua forza di imperativo morale.

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