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Questo articolo è stato pubblicato il 04 gennaio 2015 alle ore 13:33.
L'ultima modifica è del 04 gennaio 2015 alle ore 13:39.

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La conclusione di Draghi è che nell'Eurozona (e nella Ue) le politiche di bilancio dell'Unione (con i trasferimenti da Paese a Paese) non ci sono com'è in altri Paesi implicito è il riferimento agli Usa) per cui una maggiore integrazione va conseguita passando da regole comuni (com'è oggi) a istituzioni comuni che abbiano poteri per governare l'integrazione strutturale sopra descritta. Tutto ciò richiede a nostro avviso una modifica dei Trattati europei andando verso delle cooperazioni rafforzate per l' Eurozona. Questa è una prospettiva che la stessa cancelliera Merkel ha lasciato intendere. E non si tratta di poco.
Investimenti e crescita
Nelle riflessioni di Draghi non compare però alcun riferimento al Piano Juncker (per altro di dubbia solidità) per investimenti di 300 miliardi finanziati e governati a scala europea. Draghi sottolinea che nei Paesi europei vanno fatti più investimenti e al proposito cita espressamente la necessità che la Germania investa di più in infrastrutture (urgenza segnalata anche da un recente studio dell'Fmi per ridurre il surplus tedesco di parte corrente, stimolare la domanda interna e generare più crescita in Germania e nell'Eurozona). Presa alla lettera la sua intervista significa che tocca ai Paesi membri investire riallocando la spesa pubblica con politiche di bilancio e strutturali più solide. Ci pare però che implicitamente si delinei anche una flessibilità di bilancio per fare investimenti, concessa a quei Paesi che attuano le riforme strutturali richieste e vigilate dalle istituzioni europee. Sarebbe la politica degli “accordi contrattuali” più volte enunciata in documenti europei e che, se applicata, rappresenterebbe un passo avanti rispetto al rigorismo attuale. E anche qui non si tratterebbe di poco.
Alla domanda sulla necessità di introdurre gli eurobond, la risposta di Draghi è che prima ci vuole fiducia reciproca tra i Paesi membri, per cui oggi si tratta di «una domanda sbagliata posta in un momento sbagliato». Tuttavia non li esclude per il futuro. Né si schiera con la lamentazione germanica corrente, riproposta dall'intervistatore in vari modi (tra cui quello che cittadini tedeschi soffrono per minimi rendimenti dei loro risparmi causati da una politica monetaria a favore dei Paesi non virtuosi, quello che l'inflazione al 2% non è un dogma, e via di seguito), evidenziando invece (con composta fermezza) anche i vantaggi che Berlino ha avuto dal grande afflusso di capitali.
Alcune ulteriori chiose sono tuttavia essenziali. La prima è che una maggiore integrazione della Uem senza una quota di politica economica unificata per fare investimenti lascerebbe sempre incomplete le interconnessioni infrastrutturali europee. La seconda è che senza questo tipo di domanda esogena di grandi dimensioni (che poi genera nel medio termine più capacità produttiva, in quantità e qualità), la molta liquidità non genera né adeguati investimenti nell'economa reale (si veda il relativo insuccesso dello Tltro) né una reindustrializzazione innovativa europea, mentre può alimentate bolle speculative di cui intravedono sintomi.
Una conclusione
Draghi negli anni di crisi è stato artefice di quella solidarietà creativa che ha salvato e consolidato l'eurozona. Nelle sue riflessioni che abbiamo commentato ha detto molto ma non poteva dire tutto. Einaudi nel 1936 disse: «La manovra monetaria opera su un congegno delicatissimo e complicatissimo; e riesce a quel manovratore che alla chiarezza delle idee astratte sa unire, rapidissimo, l'intuito di fatti invisibili». Draghi ha impersonato quel “manovratore” svolgendo un grande ruolo di supplenza. Speriamo che anche nel prossimo passaggio (ipersemplificato da molti nel “quantitative easing”) non perda di vista la necessità di andare oltre la semi stagnazione-recessione europea tenendo conto che la Germania, pur in una complessa dialettica, non può più fare a meno di Draghi.

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