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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2015 alle ore 09:31.
L'ultima modifica è del 06 gennaio 2015 alle ore 09:57.

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Sono passati quasi sette anni da quando la prima reazione tedesca alla crisi greca fu l'idea di togliere ad Atene il diritto di voto nel Consiglio europeo. Dietro la proposta c'era una scarsa attenzione per le esigenze di democrazia, ma anche una denuncia di istituzioni europee paralizzate dal requisito di voto unanime.

Da allora le decisioni che hanno interessato l'euro area sono scivolate lungo un piano inclinato. Si sono allontanate dai principi di solidarietà e di democrazia e si sono riparate dentro costruzioni intergovernative, basate sui rapporti di forza, regolate da meccanismi tecnici e sorvegliate da istanze giuridiche. La politica – o come sostengono alcuni, la necessità di unione politica – è stata tenuta fuori dalla porta. Nel 2015 sta rientrando dalla finestra, nella forma delle incerte elezioni greche, spagnole e portoghesi, ma anche del sottostimato potenziale di interdizione formato dagli euroscettici nei Paesi meno vulnerabili, a cominciare dalla Germania, dal suo partito anti-europeo e dai nuovi movimenti xenofobi e anti-sistema sempre più vibranti.

È ora di uscire dalle ristrettezze intellettuali con cui gli economisti cercano di ricondurre ogni analisi della crisi a un calcolo di costi e benefici. Se così fosse, i greci dovrebbero essere accondiscendenti. In fondo il servizio del loro enorme debito pubblico costa in percentuale sul Pil meno di quanto paghino italiani o irlandesi e più o meno quanto pagano gli americani. Bisogna capire piuttosto che cosa nella politica europea ostacola la formazione di consenso tra popoli diversi su problemi comuni.

La crisi dell'euro area è stata ricondotta a una crisi dell'idea europea. Troppo diversi i Paesi, troppo distanti le culture civiche dei cittadini, quasi irriconciliabili le loro preferenze politiche. In realtà la radice dei problemi non sono le differenze, ma un'uguale incapacità in tutti i paesi di fare i conti con l'interdipendenza delle economie. Attraverso la crisi i governi nazionali si sono comportati come se gli stati fossero, o dovessero diventare, autosufficienti. L'idea stessa di autosufficienza è radicata nell'antica visione di stati nazionali esposti all'eventualità delle guerre. L'autosufficienza, cioè la non dipendenza da economie straniere, era necessaria e perfino vitale negli ultimi 220 anni durante i quali gli stati hanno combattuto circa 150 guerre e oltre 500 battaglie sul suolo europeo.

Il fatto che la crisi, la diffidenza, abbia resuscitato un riflesso di autodifesa se non di ostilità è particolarmente imbarazzante per tedeschi e italiani che hanno fatto del ripudio della guerra uno dei pilastri delle loro leggi fondamentali, attribuendo come altri paesi all'Europa l'obiettivo di costruire un'integrazione pacifica e stretta, cioè una visione positiva dell'interdipendenza. Durante la crisi è riemersa invece la volontà di isolarsi e di isolare. Ciò ha reso impossibile sviluppare solidarietà e infine risolvere una crisi dietro la quale insiste un'ombra che non vogliamo chiamare per nome, ma che sappiamo ricordarci le ostilità del passato europeo. La scelta di isolarsi è prevalsa fino dall'autunno 2008, ben prima dell'ammissione greca di aver falsificato i conti. Ogni stato ha cercato di proteggere le proprie banche, nonostante l'interdipendenza finanziaria fosse evidente.

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