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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2015 alle ore 14:05.
L'ultima modifica è del 18 gennaio 2015 alle ore 15:01.
«Tutte queste insinuazioni sulla fine dell'euro mi hanno stufato». Con questo pensiero in mente, Mario Draghi salì sul palco della conferenza a Londra il 26 luglio 2012 e dopo sei minuti di introduzione pronunciò la famosa frase che cambiò la storia della crisi: «Entro il suo mandato, la Bce è pronta a fare qualsiasi cosa sia necessario a preservare l'euro».
La frase prese di sorpresa anche i collaboratori più vicini del presidente della Bce. A uno di loro, che gli inviò un sms di congratulazioni, Draghi rispose con un breve testo molto colorito in cui spiegava che aveva deciso di parlare perché il tono con cui l'unione monetaria veniva liquidata dai suoi interlocutori londinesi gli era sembrato insopportabile.
Luglio 2012 era il mese critico in cui l'euro sembrava irrimediabilmente condannato. Nella versione della crisi propagandata dai capi di governo, il consiglio europeo di fine giugno aveva posto le basi per la soluzione della crisi. Era stata approvata l'unione bancaria e varato un programma per la crescita. Inoltre i leader dei Paesi euro avevano approvato un testo, ispirato da Mario Monti, in cui in due paragrafi si collegava l'uso “efficiente e flessibile” dei fondi di stabilità a un riferimento indiretto all'intervento della Bce. Quello che ai leader europei sembrava un mandato politico unanime alla Bce a salvare l'euro intervenendo su spread eccessivi rispetto ai fondamentali dei paesi, ai vertici della Bce sembrò invece - nelle parole di un membro del board - «una fregatura». Gruppi di lavoro erano stati avviati solo di recente a Francoforte per studiare i possibili interventi. Ma la pressione politica dei capi di governo interferiva con la libertà di manovra della Banca gelosa della propria autonomia, convinta di poter già agire in base a un'interpretazione del Trattato Esm già approvato dai governi.
La reazione dei mercati al consiglio di giugno era stata ancor meno convinta. Nonostante un aiuto di 100 miliardi per le banche, lo spread spagnolo era salito alle stelle dopo che il governo della regione di Valencia aveva chiesto aiuto a Madrid. Anche la Catalogna sembrava prossima a una richiesta di aiuti e il differenziale sui tassi biennali spagnoli aveva superato il 7% a seguito della fuga di capitali dal Paese. La Grecia era di nuovo sull'orlo della crisi nonostante a maggio avesse ottenuto un nuovo programma di aiuti per 130 miliardi. I fondi disponibili sarebbero bastati tuttalpiù per salvare Spagna e Cipro ma non altri paesi. Inoltre l'utilizzo dei fondi del Meccanismo di stabilità (Esm) era ostaggio dei ritardi nel via libera della Corte costituzionale tedesca, alimentati anche dalle obiezioni della Bundesbank. I tassi italiani seguirono quelli spagnoli e le agenzie di rating abbassarono il loro giudizio su Germania, Olanda e Lussemburgo da “stabile” a “negativo”.
Come d'abitudine, arrivato a Londra Draghi si incontrò con il suo collega britannico Mervyn King. I due erano legati da amicizia fin da quando si erano conosciuti a Boston frequentando i corsi di Paul Samuelson e Franco Modigliani al Massachusetts Institute of Technology. Facevano parte di quel gruppo di banchieri centrali, come Ben Bernanke, che erano stati cresciuti nell'”acqua salata” dello stile di Cambridge, uno stile pragmatico, aperto ad applicazioni discrezionali della teoria, contrapposto alla scuola radicale di Chicago. Paul Krugman lo descrive come “l'uso di modelli semplici applicati a problemi reali che combinano osservazioni del mondo reale a un po' di matematica per entrare nel vivo dei problemi”.
Quel giorno però tra Draghi e King non c'era sintonia. Il governatore inglese era convinto che l'euro fosse condannato e insisteva nel ribadire a Draghi che non c'era speranza per un progetto che gli inglesi avevano sempre liquidato come velleitario. Il rischio di rottura dell'euro aveva ricreato barriere nei movimenti di capitale entro l'euro area e la stessa Bce non era in grado di determinare il livello dei tassi a breve nell'intera zona dell'euro, mentre le banche centrali e i supervisori bancari nazionali ostacolavano la circolazione della liquidità. Di fatto era come se i Paesi stessero rialzando i confini. Draghi non era d'accordo e fece presente a King che perfino il Consiglio di giugno aveva dimostrato che i governi volevano avanzare sulla strada della corresponsabilità politica. Ma proprio l'avanzamento sulla strada dell'unione politica era un argomento che gli inglesi ritenevano irrealistico.
La Global Investment Conference a cui Draghi e King dovevano partecipare faceva parte delle spettacolari presentazioni dei giochi olimpici in una Londra euforica. Difendendo la City, King introdusse gli ospiti dicendo che era «falso» sostenere che la crisi fosse stata causata dal cattivo comportamento dei banchieri. Secondo il governatore inglese la crisi era il frutto di errori nella politica macroeconomica in tutto il mondo. Quindi accusò l'euro di creare problemi a Londra e al Regno Unito. Non si risparmiò qualche battuta ironica sulla marginalità dell'euro area rispetto ai Paesi emergenti, per concludere che l'unione politica europea era semplicemente la risposta sbagliata.
Fuori dalla Gran Bretagna era chiaro a tutti che proprio la City di Londra aveva gravi responsabilità nella crisi finanziaria globale, in particolare per avere esportato una quantità di pratiche finanziarie pericolose e spregiudicate in Europa. L'uso di strumenti finanziari non regolati aveva completamente squilibrato i sistemi bancari dell'euro area, reso possibili disavanzi nelle bilance dei pagamenti che con la crisi si erano rivelati insostenibili. La crisi di Lehman e di una quantità di banche europee aveva avuto come conseguenza una depressione economica senza precedenti. In queste condizioni, il nichilismo con cui a Londra ci si compiaceva del rischio di rottura dell'euro risultò insopportabile a Mario Draghi. Così decise di intervenire.
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