Cosa devono fare da oggi in avanti le banche centrali di Unione Europea (BCE), Stati Uniti, Regno Unito, Giappone e magari anche Cina? Devono cooperare per stabilizzare il dollaro, in modo da evitare che uno shock regionale e finanziario si trasformi in una recessione mondiale. La decisione degli inglesi di votare a favore di una uscita del loro paese dall'Unione Europea è un evento negativo dal punto di vista della stabilità dei mercati finanziari. Il Brexit è un moltiplicatore di incertezza, in quanto i suoi effetti si possono propagare a raggiera, nella sfera economica come in quella politica, in Europa ma non solo, spalmati su più di un orizzonte temporale.
Quale è il rischio più grosso? Che uno shock regionale e finanziario nel brevissimo periodo – questo è il Brexit - si trasformi nel detonatore di una nuova recessione mondiale. E quale potrebbe essere la miccia? Un dollaro instabile.
Il dollaro può divenire l'acceleratore della crisi mondiale prossima ventura per almeno due ragioni, una tradizionale e l'altra più recente, tra loro per giunta intrecciate.
Da un lato, il dollaro continua ad essere la valuta dominante nel commercio internazionale mondiale. Un suo apprezzamento, rilevante e non temporanea, sarebbe un notevole fattore di instabilità reale. Dall'altro lato, a partire dal nuovo millennio, e soprattutto dopo l'inizio della Grande Crisi, un numero crescente di paesi, imprese e banche non americane hanno iniziato ad emettere il loro debito in dollari. Il fenomeno è stato particolarmente rilevante nel caso delle economie emergenti. Anche dal punto di vista finanziario, dunque, uno strutturale apprezzamento del dollaro sarebbe una tossina per i mercati mondiali.
Quale è la risposta più efficace? Le banche centrali devono annunziare un coordinamento sistematico delle loro strategie, con un obiettivo ben preciso: stabilizzare il valore del dollaro. Dal punto di vista della politica monetaria, bisogna guardare indietro per andare avanti. Negli ultimi tre decenni, due concetti sono andati in soffitta, per ragioni diverse. Il primo concetto è che la stabilità del tasso di cambio deve essere un obiettivo della politica monetaria; le banche centrali dei paesi avanzati hanno disegnato e messo in atto le loro politiche monetarie guardando al tasso di cambio esclusivamente come ad un elemento fondamentale del meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari all'economia reale. Rinunciare al tasso di cambio come obiettivo è divenuta condizione necessaria – ancorché non sufficiente – per entrare nel perimetro delle cosiddette economie di mercato; si pensi al dibattito – ed alle polemiche – sulla politica monetaria cinese.
Allo stesso tempo, è passato nel dimenticatoio il concetto del coordinamento esplicito delle politiche monetarie nazionale. L'idea dominante è invece divenuta quella che ciascuna banca centrale deve “mettere ordine in casa propria”, e questo renderà “tutto il condominio” più ordinato. Fuori di metafora: ciascuna banca centrale – a partire dalla FED - deve disegnare la sua politica monetaria, guardando all'andamento di crescita ed occupazione, da un lato, e dell'inflazione dall'altro. Le perturbazioni internazionali, se rilevanti, si riverbereranno sugli obiettivi interni; solo allora la singola banca centrale ne terrà conto, reagendo coerentemente in termini di politica dei tassi e degli aggregati.
Oggi è diverso. Situazioni eccezionali impongono la necessità di definire strategie eccezionali, anche su un orizzonte temporale diverso dal brevissimo periodo. Se si vuole evitare di ricadere subito in una nuova recessione mondiale, le banche centrali possono e devono cooperare su un orizzonte temporale più ampio, avente in mente come obiettivo comune la stabilizzazione della moneta di riserva mondiale, appunto il dollaro. E' il classico giuoco a somma positiva, in cui si vince tutti, se tutti non solo miopi. Lo giocheranno questa volta le banche centrali?
© Riproduzione riservata