Oltre la crisi con ordem e progresso. Almeno ora, e prima che sia troppo tardi per provare a mettere le ali a questa Olimpiade, la prima in Sudamerica, che finora ha fatto parlare di sé solo per mancanze, errori, casse vuote, corruzione, sfascio. Per settimane, come forse era accaduto solo prima di Mosca 80, si è giocato solo con le schermaglie e le accuse. Sono stati Giochi per modo di dire, si è parlato di tutto fuori che di ciò per cui nascono: lo sport, i valori, le gare, le medaglie.
La cerimonia di questa sera - sarà notte in Italia - arriva per spazzare il campo, mettere un punto e ricominciare. Sfila tanta Italia al Maracanã di Rio de Janeiro: i 309 qualificati pronti a ripartire dalle 28 medaglie di Londra 2012 e anche la creatività della Filmmaster dell'amministratore delegato Antonio Abete, che ha curato la cerimonia di apertura. Il Paese arriva ai Giochi in affanno, ha completato come meglio ha potuto le opere infrastrutturali, compresa la vitale e famigerata linea 4 della metropolitana: aveva ottenuto la candidatura nel 2009 quando cresceva a una media annua del 7,5%, oggi arranca in un profondissimo -5,4 per cento.
Ma non è solo questione di numeri, il Brasile, azzoppato dalla bolla delle materie prime che avevano gonfiato il suo sviluppo, sta guardando in faccia anche la corruzione endemica, che prima c’era, ma era meno evidente. E non si tratta solo della ex presidente Dilma Rousseff che è stata messa in stata d’accusa, ma anche del nuovo governo del presidente Michel Temer: una compagine di soli uomini e bianchi, e tre di loro si sono già dimessi per accuse legate alla corruzione. Caos politico-istituzionale, problemi sanitari che vanno dagli ospedali dove mancano siringhe e medicinali alla zanzara Zika, con lunghi tratti di canali maleodoranti e a cielo aperto. E a poco vale vedere bidoni per i rifiuti con la scritta “Prefettura di Rio Presente”. Una beffa più che una rassicurazione. Ma i brasiliani sono fiduciosi, allegri, dispensano sorrisi, ti parlano usando sul cellulare Google traduttore, pur di rendersi utili e dare informazioni: sanno bene che alla fine vincerà la gambiarra, quella specie di improvvisazione che è arte di arrangiarsi, provare, far tornare i conti sempre e sorridere del risultato finale.
Dove va Rio
Proprio in una situazione di tale difficoltà, i Giochi potrebbero rappresentare l’occasione della rinascita. Il governo della città di Rio ha dichiarato di aver speso 4,1 miliardi di dollari nelle infrastrutture e nel villaggio degli atleti, e che l’80% di queste risorse viene dal settore privato. La cifra è importante per un Paese che ha mille altre emergenze ma è di gran lunga inferiore, secondo uno studio della Said Business School dell’Università di Oxford, rispetto alla media (5,2 miliardi di dollari) delle edizioni estive dei Giochi dal 1960 a oggi. Anche gli economisti più severi contro i cinque cerchi, tra cui Andrew Zimbalist, riconoscono che, se proprio si vuole organizzare, un evento di questo genere bisognerebbe avere il tempismo di farlo in una fase di decrescita per riuscire così a invertire la rotta grazie a una forte domanda interna alimentata da nuove strutture, nuovi servizi.
Questo potrebbe accadere a Rio che, dagli anni 60, quando la capitale fu posta a Brasilia, ha perso la leadership e, nonostante università e imprese creative di eccellenza, non ha saputo trovare una nuova vocazione dopo aver “perso” banche e amministrazione. In una città dove le favelas occupano in 3% della superficie e ospitano il 22% della popolazione, il sindaco Eduardo Paes si vanta di aver dato la possibilità a 4,4 milioni di carioca di avere accesso ai medici di famiglia. Erano 329mila nel 2009. Si vanta di aver allargato la percentuale di chi ha servizi pubblici a disposizione. Piccoli, timidi segnali, ma da qualche parte si deve pur cominciare.
Il nodo sicurezza
Resta, anche in questi giorni di vigilia, il nodo sicurezza. La città è presidiata e quel miliardo di dollari investito si vede lungo le strade, agli ingressi degli edifici dei Giochi. Ma le proteste potrebbero ancora esplodere perché la crisi socio-economico ricorda in qualche modo la vigilia dei Giochi 1968 a Città del Messico, quando, in Piazza delle Tre culture, gli studenti urlavano: «¡No queremos Olimpiadas, queremos revolución!». Rio è sul crinale, la gente vuole servizi, vita, prima dei Giochi. Anche perché la gente sa bene che impianti e strutture sono state creati dando il ben servito a migliaia di persone cacciate dalle loro case: secondo un dossier della onlus Terre des Hommes, i Giochi di Rio sono «Giochi dell’esclusione», con 22mila persone sfrattate solo nel 2009 e “ricompensate” con abitazioni a oltre 60 chilometri dalla città.
La forza per lo sport
La rivoluzione può venire dallo sport. E infiammare la gente: questa è la forza eterna dello sport. Ed è quello che forse ha pensato il presidente del Cio, Thomas Bach. Dopo aver considerato il rapporto McLaren sul doping di Stato in Russia, ha preferito evitare di bandire l’intera squadra. Lo hanno criticato da ogni lato, falchi e colombe. Ma la sua scelta nasce da un vissuto molto intenso. L’attuale presidente del Cio, nel 1976, a 23 anni, aveva vinto l’oro nel fioretto a squadre con la Germania Ovest ma non aveva partecipato ai Giochi successivi, Mosca 80, per il boicottaggio, sa che forza rivoluzionaria ha lo sport. Ha cercato di ricucire in nome dello sport e per il bene del mondo. Così come accogliendo la squadra dei rifugiati ai Giochi, ha voluto mettere sotto gli occhi di tutti il dramma di quei 65 milioni di persone senza casa. Questi sono segnali importanti, di riconciliazione.
Rio potrebbe essere ricordata come l’Olimpiade di un nuovo inizio, di una nuova vita, come lo fu Los Angeles 1984, dopo il sangue di Mexico 68 e Monaco 72, gli scempi finanziari di Montreal e il boicottaggio di Mosca 1980. Magari accompagnata da qualche sportivo che ruba la scena ai dubbi e alle polemiche, un qualche nuovo Jesse Owens, un qualche nuovo Emil Zátopek. Sono gli eroi a ispirare gli uomini, a cambiare i destini della storia e a fare le rivoluzioni. Anche quelle sportive.
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