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Dossier | N. 12 articoli#IOTIVOTOSE

Acate, il tesoro «sommerso» da 10 milioni nel comune più povero d’Italia

Sembrano fabbriche. Ma non lo sono. Sono serre, tante, per migliaia di ettari: qui si coltivano primizie e fiori che poi vengono spediti in tutto il mondo.  Dovrebbero essere il tesoro di Acate, comune del ragusano, al confine con le province di Caltanissetta e Catania. Diciamo dovrebbero perché si tratta di un tesoro solo apparente visto che qui non ha portato ricchezza. Almeno così sembra. Perché la vera ricchezza non si vede, è in quello che da queste parti viene definito il nero legalizzato che, secondo alcune stime al ribasso, vale almeno 10 milioni di euro.

È un vasto fronte di evasione che ruota soprattutto attorno all’agricoltura: dalle giornate agricole alla cresta sui prodotti venduti al mercato ortofrutticolo. Acate, secondo gli ultimi dati disponibili, riportati dal ministero dell’Economia e aggiornati al 2015, è tra i Comuni più poveri d’Italia: il reddito medio procapite di 6.692 contribuenti (il 62,9% dei 10.639 cittadini residenti in quell’anno) è di 9.480 euro. Persino il Municipio è in dissesto finanziario dal 2015 e il consiglio comunale è stato sostituito da tre commissari inviati da Palermo per non essere riuscito ad approvare il bilancio.

Il tesoro agricolo (e bancario) del Comune
Eppure si tratta di un comune che è al centro del sistema agricolo ragusano, nel cui territorio si trovano i terreni di produzione dell’uva da tavola Igp Mazzarrone, del vino Docg Cerasuolo di Vittoria e dell’olio d’oliva Dop Monti Iblei. E se questo non bastasse, c’è un altro dato che stride col concetto di povertà: i depositi bancari sono cresciuti. Secondo la base statistica di Banca d’Italia nel 2015 si attestavano a 44,694 milioni e nel 2016 sono saliti a 47,336 milioni (l’incremento è stato del 5,9 per cento).

Non poco in un periodo di grande crisi globale a dispetto della quale cittadini e imprese di Acate sono riusciti anche a risparmiare. Già le imprese. Secondo l’Osservatorio di Unioncamere Sicilia le aziende registrate sono in totale 1.070 (in pratica una ogni dieci residenti) e di queste solo una ha un valore della produzione che supera i 50 milioni mentre quelle individuali sono 833 e quasi la metà di queste costituiscono il tessuto connettivo di un’agricoltura fatta per lo più da micro imprese o imprese individuali. «È vero che Acate è il cuore dell’agricoltura ragusana - dice Maurizio Attinelli, presidente dell’Ordine dei commercialisti ibleo - ma è pur vero che la crisi del settore ha colpito molto forte, soprattutto sul fronte dei costi di produzione».

La parola magica: disoccupazione agricola
La crisi certo è sotto gli occhi di tutti.  Andando a vedere in dettaglio i dati (consideriamo il 2015 per omogeneità) ci accorgiamo che, nella fascia d’età dai 18 in poi, sono 1.828 i nullatenenti, coloro che non hanno dichiarato nulla al fisco, pari al 17,1% dei residenti. Tutti disoccupati o a carico di altri? Ma il punto vero è un altro e riguarda, piuttosto, i prestiti: sempre secondo Banca d’Italia sono stati 42,246 milioni nel 2015 e 41,387 milioni nel 2016. Tutti fondi chiesti dalle imprese per fare nuovi investimenti? Oppure mutui per acquistare o costruire nuove abitazioni? Assolutamente no, anzi tutt’altro.

«I prestiti sono in funzione della disoccupazione agricola - spiega un addetto ai lavori - : il denaro della banca serve ai cittadini per tirare avanti fino all’arrivo dell’assegno di disoccupazione erogato dall’Inps. Certo c’è qualche mutuo, qualche prestito alle aziende ma molto spesso sono le famiglie a presentarsi allo sportello e la garanzia è rappresentata proprio da quelle giornate di disoccupazione». La parola magica, da queste parti, è disoccupazione agricola: uno strumento che dovrebbe compensare la perdita di reddito degli agricoltori nei periodi in cui non è possibile lavorare o a fine stagione e che invece è diventata uno strumento per ammortizzare il costo del lavoro.

Quella comunità fantasma di 5mila cittadini
Tutti lo sanno: l’Inps negli ultimi anni ha anche affinato le tecniche per smascherare i furbi, ma nonostante tutto si è di fronte a quello che qualcuno chiama «nero legalizzato» con mille aspetti e trucchi a partire dal lavoro a extracomunitari e rumeni, anzi soprattutto con i rumeni: «Secondo fonti non ufficiali sono almeno cinquemila, compresi i bambini, i cittadini rumeni che operano che operano in questa zona - ha raccontato Valentina Maci dalle colonne del quotidiano La Sicilia -. Una comunità fantasma che non si vuole vedere». Alla base di tutto c’è l’accordo tra gli imprenditori e i lavoratori: l’imprenditore contrattualizza il lavoratore per un certo numero di giorni (102 o 151) che paga regolarmente a tariffa di contratto ma non paga i giorni di lavoro fatti dagli operai nei periodi in cui questi dovrebbero essere in disoccupazione:

«Capita spesso - dice Giuseppe Scifo, segretario provinciale della Cgil - che i lavoratori vengano contrattualizzati per 12 giorni al mese ma ne facciano il doppio». Per i lavoratori quasi non cambia nulla visto che i giorni di disoccupazione li paga comunque l’Inps mentre cambia molto per l’imprenditore perché riesce ad abbattere il salario di almeno la metà. Ma non finisce qui: ci sono terreni improduttivi che come per miracolo risultano produttivi oppure imnprenditori dell’agroindustria che applicano i contratti dell’agricoltura che prevedono la defiscalizzazione degli oneri sociali al 68 per cento.

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