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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2010 alle ore 16:37.
L'ultima modifica è del 15 maggio 2010 alle ore 18:08.
A Milano, nell'Aula Magna dell'Università Bocconi, si è tenuto un concerto di quelli che con parole ormai abusate si chiamano «senza confini». In questo caso, però, era proprio così: sia per il numero dei musicisti partecipanti che hanno dato vita a quattro ore di esecuzioni e di improvvisazioni, sia per la diversità delle musiche, aperte alle contaminazioni e agli incontri più disparati.
L'incasso era destinato a Haiti. E infatti il concerto aveva un bel nome, Blues For Haiti, e la nobiltà dello scopo ha sollecitato tutti a impegnarsi al massimo e a dare il meglio. Hanno meritato applausi clamorosi Peo Alfonsi, Tony Arco, Franco Cerri, Bebo Ferra, Enrico Intra, Gaetano Liguori, Giorgio Conte e tanti altri. Ma alcuni, bisogna dirlo, hanno profuso emozioni particolarmente intense, forse perché il concerto coincideva con momenti speciali del loro itinerario artistico. Così Fabio Treves, arrivato sul palcoscenico da solo e per un solo brano, con l'inseparabile armonica a bocca. Ne ha cavato un blues veloce, struggente, impressionante per perizia tecnica e forza espressiva come quando, trent'anni fa, scatenava boati di entusiasmo nelle folle dei ventenni dovunque andasse.
Ecco poi Gabriele Mirabassi in solo. Ha appena licenziato per Egea due cd «destinati a passare alla storia»: Canto di Ebano che è un inno al suo strumento, il clarinetto, e Miramari in duo con il pianista e compositore brasiliano André Mehmari: ascoltare per credere. Mirabassi è sospeso fra la musica classica e il jazz dal tempo dei diplomi dell'adolescenza a oggi che ha quarant'anni, e suona stupendamente l'uno e l'altra. Ma la più attesa era il soprano bavarese Karin Schmidt, assente dalle scene di Milano da febbraio 2009. Si è presentata con Paolo Alderighi pianoforte (laureato alla Bocconi, sia detto per inciso), Paolino Dalla Porta contrabbasso e Stefano Bagnoli batteria. Ha interpretato con voce incantevole e insieme con grinta adeguata il noto Moritat di Kurt Weill.
Ci voleva un altro brano che il pubblico richiedeva, e sarebbe stato Mandelay ancora di Weill, ma l'ora era tarda e altri musicisti dovevano esibirsi. Ne ho approfittato per un breve colloquio con una domanda d'obbligo sulla crisi della buona musica in Italia, che da qualche tempo si è aggravata. Lei ne risente, signora? «Sì, e credo di risentirne più di altri per via del mio repertorio. Io provengo dalla lirica, sebbene rettificata dalla scelta di dedicarmi a Weill, a Marlene Dietrich, Gershwin, Porter, Bernstein, Ellington. Tempo fa, specie con i maestri del jazz, dovevo trattenere la voce e moderare i voli lirici, ma adesso ci riesco senza sforzo. Il problema della crisi tuttavia rimane, tanto è vero che per dare un buon numero di concerti devo passare il confine, soprattutto verso il nord, e pubblicare un nuovo cd con Alderighi, Roberto Piccolo e Stefano Bagnoli che uscirà tra poco».