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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2010 alle ore 08:13.
di Giuseppe Scaraffia
La crisi sta inaspettatamente rigenerando un mito elegante, quello del dandy. In un periodo di insicurezza come questo, in cui il futuro appare incerto, il culto per il passato del dandy, inattuale per eccellenza, non può non affascinare.
Chi si sente dandy oggi? Come nel passato tutti gli insoddisfatti di genio, coloro che si sentono limitati o traditi dalla loro definizione sociale, i delusi dalle speranze rivoluzionarie e i nostalgici di quelle reazionarie. Sono un'élite non riconosciuta, silenziosamente eversiva, metodicamente eccentrica e intenzionata a non confondersi con la borghesia, né con la bohème artistica. Sono coloro che si rifiutano di soggiacere ai miti della società di massa e preferiscono la solitudine alla resa alla banalità diffusa.
Ora che i cosiddetti eleganti hanno abdicato alla cravatta, lui può inalberarla tranquillamente in qualsiasi occasione, anche in campagna o senza giacca. Naturalmente dovrà essere sottile e sfoderata, stretta da un nodo aderente al bottone del colletto, che potrà essere solo floscio a punte arrotondate come quello di D'Annunzio o allungate come quello di Cocteau. Se ci deve essere la cintura sia una di quelle coloratissime di plastica che evitano streep-tease agli aeroporti o, se si preferiscono treni e navi, di un cuoio esausto, marezzato dagli anni. Per i suoi completi il dandy preferisce il neutro: grigio, beige, nero, bianco, sapendo, come Proust, che nulla è più frivolo della rinuncia consapevole al colore. Ma per niente al mondo si farebbe imbottire le spalle delle giacche. Il taglio che sceglierà, frutto di una lunga ricerca, sarà del tutto indipendente dalla moda. Baudelaire ad esempio aveva adottato un nero profumato di zolfo e di incenso in un periodo in cui andavano le tinte vivaci. L'essenziale, come ammonisce Balzac, è che gli indumenti non abbiano mai un'aria troppo nuova.
Permane sempre la possibilità del dandysmo démodé, adottata da Wilde all'apice del suo successo e da Proust al vertice della sua clausura. Possono allora rispuntare i pancotti a doppio petto e persino le ghette, purché portati con sublime indifferenza, come fossero una T-shirt. Se non si possono evitare le calze, che siano almeno eccentricamente a righe o di tinte squillanti, mai tenui. In alternativa una sahariana chiara, come quella celebre di Gozzano, abbottonata fino al collo. Sotto al vestito si possono portare le scarpe di corda, possibilmente come quelle di Modigliani, con i lacci intorno alla caviglia. Meglio evitare le friulane ricamate che fanno tanto Briatore. Possibili i sandali, ma quelli fatti dal calzolaio o quelli greci. Inarrivabile il modello in nappa con cinturino e occhielli ideato dal futurista Thayaht. Bisogna invece rinunciare al Panama, troppo diffuso, in favore di leggerissimo cappello di paglia di Firenze, di tinta naturale. I gemelli, sempre vintage degli anni Venti e Trenta, fanno parte dell'indispensabile rituale di rallentamento, con cui il dandy resiste all'incalzare frettoloso della modernità. Se proprio si vuole un anello che sia di scavo, come quello etrusco di Giono o semplice e bizzaro come quelli che Montesquieu portava anche sopra i guanti. In mancanza di un'epidemia che li giustifichi, i guanti traforati di cotone vanno portati solo in auto, in bici, in moto o a cavallo. Gli occhiali il dandy li trova, metallici, di tartaruga o bachelite, solo nei mercatini d'antiquariato. Incontrerà gli amici in luoghi profumati di passato: a Roma, il caffè Tadolini, un ex atelier tra una foresta di statue bianche o nel liberty Hotel Locarno. A Parigi l'intatto Café de la Paix, una reliquia del II Impero o Angelina, il miglior cioccolato di Parigi. A Londra il Café Royal o il club Athenaeum. A Milano la pasticceria Taveggia o il Cova. A Torino la Pasticceria Fiorio, frequentata da Cavour, o il Caffè Mulassano prediletto da Gozzano.