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Cultura-Domenica Arte

«Installation»: istruzioni per l'uso

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2010 alle ore 08:13.

Ce lo siamo chiesto tutti, prima o poi: che fine farà un'installazione fatta di pane, di cioccolata, di bucce d'arancia, di caramelle destinate a esser mangiate dai visitatori, di uova di insetti che si dischiuderanno, di sculture di sangue sottozero che al primo blackout si scioglieranno, di squali in formalina che stanno già marcendo?
Il volume «Monumenti effimeri», in uscita in questi giorni per Electa (verrà presentato domani al Madre di Napoli, ore 17), affronta proprio la difficoltà di conservare tutte quelle opere d'arte contemporanea che sono per loro natura mutevoli, immateriali o – all'opposto – tanto materiali da essere deperibili; difficilmente trasportabili, o invece inallestibili in contesti diversi da quello originario. In una parola, praticamente inconservabili.

Come osserva Germano Celant nell'introduzione, sono installazioni i percorsi di luce di Dan Flavin, ma lo sono anche le occupazioni ambientali di Richard Long, le proiezioni di Jenny Holzer, i racconti multimediali di Matthew Barney, gli spettacoli di Francesco Vezzoli. Ci sono installazioni fatte di migliaia di oggetti distribuiti nello spazio, e altre che vivono solo grazie alla partecipazione dello spettatore.

Prima di entrare nelle questioni tecniche della conservazione, le autrici Barbara Ferriani e Marina Pugliese hanno dovuto perciò mettere un punto fermo di tipo teorico, che pare ovvio ma non lo è: per poter decidere come e "quanto" conservare un'installazione bisogna aver capito cos'è l'opera d'arte. Aver identificato la sua "essenza". Il primo atto conservativo è dunque la catalogazione, che deve chiarire «in che cosa consiste l'opera e da quali elementi è formata». Un'operazione che risulta decisamente più facile quando è l'artista stesso a lasciarsi interrogare: nel 1999 è nato l'International Network for the Conservation of Contemporary Art (Incca), che oggi ha un database di informazioni e interviste riguardanti più di trecento artisti. Tra il 2006 e il 2008 si è svolto il progetto «Dic - Documentare installazioni complesse», che coinvolgeva 30 musei europei (al quale, giusto perché si sappia, l'Italia non ha partecipato). Un grosso aiuto viene dalle fondazioni, e naturalmente dalle nuove tecnologie. Nel caso di installazioni estremamente articolate, i mezzi spaziano dalle videocamere agli scanner 3D.

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Tags Correlati: Alexander Brodsky | Alselm Kiefer | Arte | Dan Flavin | Franz West | International Network for the Conservation of Contemporary Art | Italia | Jenny Holzer | Madre | Matthew Barney | Zoe Lonard

 

In questa ricerca "essenziale", il libro riesce anche in un secondo intento: ricostruire una piccola storia dell'installazione, rintracciando i momenti fondanti dell'evoluzione di questa prassi. Lo fa nel modo migliore: descrive mostre cruciali dal 1920 a oggi, ne pubblica le immagini, ne cita i protagonisti. Arrivati alla contemporaneità, entra nel dettaglio preciso (e nelle possibilità future) di cinque installazioni iconiche di Matthew Barney, Alexander Brodsky, Alselm Kiefer, Mario Merz, Rudolf Stingel e Franz West, Bill Viola. Un saggio di Iolanda Ratti distingue nitidamente generi che spesso confondono anche gli esperti: videoarte, videoscultura, videoinstallazione, videoproiezione e videoenvironment. Si scopre poi che la parola «Installation», entra ufficialmente nell'Oxford Dictionary of Art solo nel 1988: fino ad allora esisteva solo come rimando al termine environment, ambiente. Oggi, il termine indica al contempo la pratica e l'opera in sé.

L'installazione è dunque un medium problematico perché in continua mutazione, e perché coinvolto in relazioni multiple con lo spazio, il tempo, lo spettatore. Ma è anche, secondo le autrici, «il mezzo che meglio rappresenta la contemporaneità». Se la scultura nel Novecento si è liberata del ruolo celebrativo e popolare, perdendo così anche la capacità di comunicare con la gente, le installazioni rimangono oggi l'unico genere «in grado di coinvolgere e comunicare con il pubblico». Le Unilever Series della Turbine Hall della Tate Modern (il sole di Olafur Eliasson, gli scivoli di Carsten Holler, la crepa di Doris Salcedo) insegnano: non durano, ma non si dimenticano. Una nuova idea di monumento per nuove generazioni di fruitori-protagonisti. E di artisti capaci di fare un passo indietro: eccezionale la consapevolezza di Félix Gonzalez-Torres, che diceva: «Senza il pubblico i miei lavori sono il nulla». La flemma di Zoe Lonard (quella delle bucce d'arancia): «Lasciate solo che si decompongano». Lo zen pieno di buonsenso di Bill Viola: «Semplicemente non conosciamo il destino di tutte le opere che stiamo producendo, né in che modo saranno usate nel futuro».

Barbara Ferriani, Marina Pugliese. «Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni» Electa, Milano, pagg. 280, Euro 35,00.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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