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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2010 alle ore 12:13.
Roma hub dell'arte contemporanea: dal quartiere Flaminio al Nomentano-Trieste, dopo il museo Maxxi di Zaha Hadid, taglio del nastro anche per il museo comunale Macro firmato da Odile Decq. Due opere finalmente pronte a dieci anni dal concorso di progettazione, come possono essere innovative a distanza di tanto tempo?
L'architetto per definizione deve pensare al domani. I musei in particolare si riferiscono a concetti come la cultura e l'arte che non invecchiano, anzi più spesso anticipano l'evoluzione delle cose. La forza del Macro sta nel fatto che questo museo è stato pensato per aprirsi alla città e per far entrare la città nel museo, un concetto attualissimo. L'architettura offre percorsi molteplici e diversificati per andare alla scoperta delle opere d'arte. Accade spesso che nei musei contemporanei gli architetti dirigano con eccessiva determinazione i percorsi dei visitatori, io ho cercato di proporre punti di vista diversi.
Come?
Con un viaggio personalizzato, anche con passerelle in quota. I percorsi museali non sono necessariamente orizzontali, ho creato delle pendenze che hanno effetti destabilizzanti e obbligano il visitatore a riferirsi al proprio centro di gravità, al proprio corpo. Un'inversione di tendenza che consente a ciascun visitatore di farsi un'idea personale dello spazio dell'arte. Non volevo ci fosse un atteggiamento passivo.
Inevitabili i confronti con l'altro museo romano che apre le porte sempre in questi giorni a Roma, il Maxxi griffato dall'archistar anglo-irachena. Quello di Zaha Hadid è un lanmark, cosa vuole essere il suo Macro?
Il Macro è frutto di un progetto di riconversione di un edificio industriale esistente, quello dell'ex fabbrica Peroni. È un intervento realizzato con un budget molto inferiore, 25milioni di euro contro i 150 del Maxxi. Non è un oggetto, io non penso ci sia la necessità di gettarsi all'esterno, ho pensato ad un luogo con un'anima. All'interno il Macro è un landlmark.
Nel foyer principale il protagonista è un volume rosso, che sale dalla pavimentazione e che racchiude l'auditorium, è questo il cuore pulsante del suo progetto?
Sì. Per me il cuore rosso è la vita, l'arte è tale se ha vita. Gli spazi del Macro dedicati al lavoro degli artisti sono stati concepiti per essere neutrali, per far emergere le opere, altri spazi come quello dell'auditorium hanno un'identità più forte: questo è tutto rosso, satinato fuori e laccato lucido dentro.