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Cultura-Domenica Archivio

Come costruire il presente

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2010 alle ore 17:04.

Agli architetti di «Spazio» abbiamo chiesto di rispondere con le loro installazioni a tre domande importanti. Chi saranno nei prossimi anni i progettisti più innovativi ed emergenti? Quali saranno i temi più importanti per gli architetti delle prossime generazioni? Come funziona lo spazio disegnato da Zaha Hadid sottoposto a stress dai colleghi chiamati a lavorarci dentro?

Già all'esterno del museo il dialogo tra teste progettanti appare intenso e tutt'altro che di maniera e comincia a fornirci risposte interessanti. Alla monumentalità fluida e scorbutica dei corpi fluttuanti del Maxxi gli scandinavi Rintala & Eggertsson e il sivigliano Santiago Cirugeda (Recetas Urbanas) contrappongono strategie molto distanti. Per il primo una casa di legno a tre piani "a consumo zero", che l'abitante può costruirsi da solo. Per il secondo una instant-house tutta realizzata con materiali di scarto – container, travi metalliche, erba sintetica – che non rinuncia ad associare al low-cost una potenza figurativa dura e convincente come il cemento del museo.

All'interno la mostra procede sugli stessi registri: la sezione dedicata a "natura e artificio" si apre con il bosco/paradiso di garza bianca di West 8, capace di mettere insieme il rimpianto per l'armonia "perduta" e l'entusiasmo per la ricerca di nuovi punti di equilibrio con l'ambiente. Dalla parte opposta della stessa sala una proiezione che spiega il paradigma dei francesi Lacaton & Vassal, applicato nel caso raccontato all'allestimento di Documenta: fare sempre il meno possibile, usare materiali poveri (le serre), considerare ogni spazio aperto e ogni edificio come un corpo che può cambiare e trasformarsi di volta in volta.

La sezione successiva, nel percorso ideale della mostra, risale lungo le sale gradonate e trova, nelle "mappe del reale", il progetto-shock di Bernard Khoury, una specie di missile cavo progettato per "sparare" gli amanti del turismo estremo, quello che va in caccia di teatri di guerra e sensazioni forti, in giro per i più pericolosi quartieri di Beirut. Dal reale, percorrendo nella lunga rampa che ci riporta verso la Galleria 3, arriviamo alla sezione dedicata all'abitare, dove troviamo i lavori di Teddy Cruz (Estudio Teddy Cruz, San Diego) e di Cino Zucchi. Il primo lavora sulle case a basso costo per chi passa, più o meno legalmente, il confine tra California e Messico e mostra la sua propensione al riciclaggio e ai materiali poveri (qui i birilli spartitraffico). Il secondo, da vero architetto italiano, si impegna nella rappresentazione dell'ultima utopia possibile: tenere insieme la storia, la città, la tecnologia, il futuro.

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Tags Correlati: Architettura | Bernard Khoury | DS | Helena Njiric | Lavaux | Roche | San Diego | Santiago Cirugeda | Teddy Cruz | Zaha Hadid

 

Attraversato il corpo di Zucchi rimane l'ultima sezione, quella più concettuale e visionaria, dove troviamo infatti i lavori di Helena Njiric, di Roche e Lavaux (R&Sie(n)), Diller Scofidio + Renfro. Si tratta del gruppo di architetti più abituati a lavorare nei musei, con tecniche e strumenti vicini a quelli degli artisti. La Njiric costruisce una "soglia sensibile", che lega due parti della mostra e che i visitatori modificano con il loro passaggio. Roche e Lavaux danno un saggio della loro ricerca sospesa tra digitale e biologico, qui espressa in un'architettura che piange e si consuma. DS+R, a conclusione del giro, affidano a un trapano robotizzato il compito di continuare a intervenire sul museo per tutto il tempo della mostra. Indeciso, il trapano continua a fare buchi nel muro come per trovare la giusta collocazione a un'opera. Alla fine si scoprirà forse che la casualità del suo movimento non era tale e che l'opera sarà alla fine quella scolpita dal trapano stesso.

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