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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2010 alle ore 17:03.
Da sempre Kutlug Ataman percorre con i suoi progetti quei territori di confine in cui culture diverse si incontrano, si scontrano, lottano, soccombono. E se Istanbul, dove è nato nel 1961, è un esempio emblematico di queste regioni "in between", tanto più lo è la terra da cui la sua famiglia è originaria, nell'Anatolia orientale, periferia di una periferia in cui le novità della brusca occidentalizzazione voluta da Atatürk quasi un secolo fa non sono mai arrivate.
Eppure, quella che è tuttora una delle aree più arretrate del paese porta in sé il dono di racchiudere il nord dell'antica Mesopotamia, «che – rammenta Ataman – fu uno dei più importanti centri di civilizzazione del mondo antico, diventato oggi uno spazio di tensione, una zona grigia dove le formule elaborate nei cosiddetti "centri" iniziano a trasformarsi, a confondersi. Un collasso di senso che dà luogo a nuove possibilità, ricostruzioni, riformulazioni.». È in questo scenario geografico e simbolico che ha preso forma il progetto "Mesopotamian Dramaturgies", presentato per la prima volta integralmente al Maxxi (fino al 12 settembre, catalogo Electa), con la cura di Cristiana Perrella: nove lavori tra videoinstallazioni, proiezioni e fotografie, due dei quali, Dome e Column, sono frutto di un soggiorno a Roma in cui Ataman si è deliberatamente esposto all'arte classica e rinascimentale per mettere alla prova questa "matrice visiva" dello sguardo occidentale.
Così Dome è proiettato a soffitto, come fosse la volta affrescata di una chiesa antica, e Column cita la Colonna Traiana con il moto avvolgente dei vecchi televisori sovrapposti: non narra però di un antico trionfo, bensì della sconfitta, di oggi, di quelle genti dell'Anatolia. (Ad.M.)